COSENZA «Da piccola cantavo Mina nelle piazze ai concorsi calabresi locali. Quando sono passata alla lirica, mi è capitato di cantare a un matrimonio ortodosso albanese. Con la lirica è stato un approccio graduale. Ascoltavo i vinili di mio nonno dei cori verdiani. Dopo il Conservatorio ho avuto come insegnanti Carmela Remigio e Leone Magiera, il pianista che era legato a Pavarotti». La storia di Mariangela Sicilia come cantante d’opera è strana, tutto fuorché lineare. Iniziata con le canzoni di Mina e proseguita con gli scavi archeologici. Lo racconta, in un’intervista, al Corriere della Sera. E ricorda le sue origini: è nata a Marzi, piccolo centro di 900 abitanti nel Savuto, a venti minuti da Cosenza. Terra di talenti, con tutta evidenza, visto che ha dato i natali a Mauro Fiore, premio Oscar per la fotografia di «Avatar», e al nonno dell’attore Stanley Tucci. Della vita in paese Mariangela Sicilia ricorda che «c’era uno di tutto, il negozio di alimentari, il bar. L’unica nota di colore erano i bottoni della merceria. Io fantasticavo guardando le stelle dalla mia stanza. Sognavo quello che sto facendo».
La sua carriera operistica pare aver spiccato il volo. Tre i ruoli da protagonista segnalati dal Corriere: «La Juive» di Halévy con cui il 21 settembre aprirà la stagione del Regio di Torino; il 24 ottobre come Donna Elvira nel «Don Giovanni» di Mozart che Riccardo Muti riprende al Massimo di Palermo; «La Rondine» di Puccini il 4 aprile alla Scala, diretta da Riccardo Chailly. Grandi impegni in arrivo, ma cosa c’entra l’archeologia con l’opera? «Durante il Covid – spiega Mariangela – non avevo niente da fare e mi sono iscritta ad Archeologia. Sono laureanda. Ma già a fine liceo costruii il piano B, se le cose non fossero andate bene in musica, studiando restauro. Ora faccio gli scavi al Palatino. Fino a 13 metri in profondità. Mi alzo alle cinque del mattino, che è l’ora in cui noi cantanti andiamo a letto dopo la recita, e vado. Ho trovato il bucchero, che è una ceramica etrusca, e diversi cocci di cui rilevo l’epoca. Mi appassiona lo studio dell’acustica dei teatri antichi, l’amplificazione naturale. Così penso a cosa ci hanno lasciato e cosa dimentichiamo. In Italia mi piacerebbe che l’opera venisse vista per l’importanza che ha avuto, e non essere considerata come una cosa vecchia e ristagnante. È una battaglia che nasce a scuola, ricordo quanto penai con i professori per il fatto che secondo me Da Ponte e altri librettisti dovrebbero avere lo stesso rispetto dei poeti».
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