«E qualche cosa di astratto si impossessava di me. Sentivo parlare piano per non disturbare. Ed era come un mal d’Africa» canta Franco Battiato. Ho visto il mal d’Africa a Bangui dove una volontaria europea piangeva a dirotto per dover abbandonare la sua terra d’elezione.
Mi ha colpito un post di Luciano Pignataro, gastronomo di peso e di autorevolezza riconosciuta, che scrive: «Soffro troppo il Mal di Calabria! Staccarsi ogni volta è più difficile❤️» vergato dopo la sua ultima incursione nella nostra regione.
Premio Veronelli, ambasciatore della Dieta mediterranea nel mondo, benemerito della viticoltura del Vinitaly e potremmo continuare per lunghe righe a tessere le sue benemerenze. Giornalista di lungo corso, 66 anni, firma storica del Mattino, capocronista a Salerno, penna sapiente dell’Economia (conoscenza che molto aiuta le sue cronache del gusto) ha trovato il suo buon demone aprendo un blog quando lo strumento era poco conosciuto e diventando un punto di riferimento della critica enogastronomica nazionale. Decine di migliaia di seguaci sui social per un campano del Cilento che ama storia, geografia, cibo e vino e che oltre a scriverne sul Mattino riesce a diffondere il suo verbo in ogni dove, spesso in presenza.
Troppo ghiotta l’occasione, ci facciamo raccontare la sua Calabria. Lo acciuffiamo al telefono mentre è in viaggio in auto verso Castelnuovo Berardenga in Toscana dove lo attende una cena da grandi chef.
Ti ho visto molto soddisfatto per la recente cittadinanza onoraria conferita dal comune di Taurasi in Campania (Pignataro ha molto promosso e nobilitato il vino di quella zona ndr).
«Per me è stata una giornata speciale! 30 anni di lavoro in due parole. Cittadinanza onoraria».
Ma questo Mal di Calabria di cui hai scritto è come il mal d’Africa?
«Sì. Complessivamente parlando la Calabria ha dei valori non omologati. Sia nei rapporti con le persone che nelle relazioni. Questa è la mia impressione, da esterno».
Vale molto, considerato che tanti calabresi ritengono che la loro regione sia una sorta di incubo…
«Quando io torno trovo le amicizie di sempre e l’immutata la voglia di accoglierti. C’è quasi una gelosia dell’accoglienza, le persone ti vorrebbero solo per loro».
Conta il peso della tua firma forse?
«Assolutamente no. In Calabria il rapporto personale è decisivo nel rapporto di comunità. L’empatia tra persone precede qualunque rapporto professionale».
Per questo soffri il mal di Calabria?
«Sai, vivo la realtà di Napoli, che pur non essendo completamente omologata è di fatto metropolitana e vive di rapporti essenziali, asciutti, molto condizionati dall’aspetto lavorativo».
Immagino ci siano altri aspetti in questo tuo mal di Calabria?
«Senza dubbio la natura».
Nonostante il non finito calabrese?
«Sì quello c’è però la natura calabrese resta sovrana. Ti consegna ancora il piacere del viaggio, non del trasferimento organizzato».
Ti senti viaggiatore e non turista in Calabria?
«Esatto. Quello che per gli scienziati della Bocconi è un difetto per me diventa valore. È l’umore considerata la dimensione del viaggio unica».
Quando ha scoperto la Calabria Luciano Pignataro?
«La frequento dal 1993 quando stavo all’Economia del Mattino e seguivo gli incontri organizzati da Siciliani di Confindustra a Cirò. Un meeting nazionale cui partecipava mezzo Governo».
Era la Cernobbio del Sud.
«È stata una bella porta d’ingresso. Con il vino della zona poi è stato grande amore. Ho avuto l’opportunità di conoscere quel territorio enologico in ogni dettaglio».
Non solo quella immagino?
«Anche quella della provincia di Cosenza. La novità enologica calabrese sta da quelle parti».
Quindi una Calabria moderna non arcaica?
«Certo. Molti colleghi sbarrano gli occhi quando sostengo questa tesi. La Calabria è terra di futuro».
Perché?
«Una regione con 800 chilometri di costa. Tre sistemi montuosi, la Sila, il Pollino e l’Aspromonte, affascinanti e densi di mistero uno meglio dell’altro. Questo suo snodarsi nella sua dicotomia tra Jonio e Tirreno darà buon futuro».
Questo per la geografia e per il cibo?
«Punto fondamentale di futuro. Una cultura della conservazione alimentare rimasta a quella di prima del frigorifero».
Esempi?
«Le conserve, i salumi, i formaggi, i fichi, le sardine, il tonno. Nelle altre culture tutto questo si sta perdendo mentre per un gastronomo come me in Calabria si trova un paradiso terrestre. C’è ancora tanto da scoprire e da raccontare».
Giacimenti del gusto o persone?
«Agli inizi della mia calabritudine parlavo solo con persone dai capelli grigi. Oggi dialogo con tanti giovani».
Che giovani sono questi calabresi?
«Persone che ragionano bene e investono meglio. Di recente a Cirò sono stato da un produttore che si è laureato a Bologna. Invece di aprirsi il solito ristorante noioso e dimenticabile ha aperto un asporto fantastico innnovando alcune tradizioni di famiglia come quelle della norcineria».
Anche questo è futuro?
«Ma sì. Pensa al Covid. Dal nord in tanti sono tornati al sud. Come durante la guerra, quando dalle città si andava nelle campagne».
Che vuol dire?
«Che i periodi di crisi come questi la grande Milano non riesce a reggerli. E al Sud abbiamo strumenti per vivere meglio. Questo fa riflettere sui veri valori».
Che in Calabria vedi ben saldi.
«È la regione del Sud che meglio li esprime».
Eppure è un paradiso abitato dai diavoli. Spesso ultima delle ultime…
«Perché è rimasta isolata. E poi l’emigrazione di massa. Ad emigrare sono sempre i più bravi di una comunità. L’annessione sabauda è stata tragica. Come in tutto il Sud ha determinato una mutazione antropologica di grandi dimensioni».
M’interessa anche questa questione dell’isolamento calabrese…
«L’autostrada ha impiegato decenni per essere completata. Ora è migliorata. Io l’altra sera da Salerno a Cirò ho impiegato circa 3 ore, un tempo impiegavo 5 ore e mezzo. In treno da Salerno a Reggio Calabria il tempo di viaggio e è uguale a quello per arrivare a Firenze. L’aeroporto di Lamezia Terme ti permette di andare ovunque. Non può che migliorare la Calabria».
Torniamo al cibo. La ‘nduja è diventato un luogo comune della Calabria moderna. A volte persino avversato dai calabresi stessi…
«La Calabria inizia con la ‘nduja. Arrivando da nord quando vedi il primo autogrill che la espone capisci di essere in Calabria».
Salume di successo a tuo parere?
«Osserva l’utilizzo che ne hanno fatto i pizzaioli dappertutto. Poi come diceva il buon Veronelli il successo banalizza i prodotti».
Esatto…
«Io sono un amante del forte, nonostante abbia le emorroidi (ridiamo entrambi divertiti) e trovo che il suo non essere troppo forte stempera il grasso e ne garantisce la popolarità».
Forse più raffinata la sopressata
«Come nel mio Cilento e anche in Irpinia. Un altro salume identitario del Sud e della Calabria».
Se ti dico suino nero invece?
«Che non conta il colore dell’animale ma le modalità di allevamento e cucina. Evitiamo i luoghi comuni. Come diceva Deng Xiaoping non importa di che colore è il gatto l’importante è che acchiappi il topo».
Delle pizzerie calabresi che ci dici?
«Ci sono tanti giovani che stanno lavorando molto bene. Per esempio c’è Pizzeria Bob alchimia di Montepaone che abbiamo piazzato tra i primi venti in Italia. Poi Campana, Corigliano che fa solo meravigliose pizzette d’asporto che lavora con concetti da bravo cuoco. Altro che Renato Bosco in Veneto (uno dei principali innovatori della pizza italiana ndr). Tanti giovani che hanno dato dignità al mestiere di pizzaiolo».
E degli stellati calabresi che te ne pare?
«Consegna fiducia che siano della fascia tra i trenta-quarantenni. Importante che siano molto adesivi al territorio di provenienza».
Di cosa ha bisogno la Calabria gastronomica del presente?
«Di buone trattorie. Chi viene da fuori vuole mangiare una buona stroncatura, spaghetto con sardine. I piatti iconici sono fondamentali».
Qualcosa di nascosto dell’agroalimentare calabro?
«Il riso. Averne ripreso la coltivazione è decisivo. Non è un vanto del Nord questa coltura. A noi lo portarono gli arabi. Nelle zone paludose di Sibari ha trovato il suo habitat per molti secoli. La qualità calabrese è strepitosa perché riceve molto meno trattamenti di quello di Vercelli. Io ho visitato le risaie calabrese con Alfonso Iaccarino (celebre ristoratore campano) e concordavamo su un lavoro di grande qualità da parte dei produttori. Io lo compro sempre online. Non manca mai nella mia dispensa».
Sei ambasciatore della Dieta mediterranea. Come nella questione omerica Pioppi ne rivendica paternità ma anche la calabrese Nicotera. Come stanno le cose?
«Una di quelle diatribe del cacchio che un americano non capirebbe mai. Più sono i luoghi che rivendicano paternità meglio è per tutti. Mettere bandierine serve a poco, farei più attenzione agli ingredienti adoperati dai ristoranti del posto».
Tu che hai il mal di Calabria che idea hai del conflitto estivo in questa regione tra locali e turismo popolare di massa campano?
«Lo stesso fenomeno si vive nel Cilento. Tutto nasce con il grave inquinamento del Golfo di Napoli negli anni Settanta che determinò l’esodo estivo di una popolazione che ha un’esuberanza demografica. Non era turismo qualificato ma io vedo che i dissidi si stanno riequilibrando e anche l’offerta si sta differenziando».
Al gastronomo con il mal di Calabria non posso non chiedere i suoi manicaretti preferiti…
«La pasta con la ‘nduja però bisogna saperla cucinare e poi le deliziose crocette».
Vino?
«Cirò tutta la vita».
x
x