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Quattro anni di lotte per fare il padre. Per il collaboratore Mancuso il “riscatto” della Cassazione

La Suprema Corte accoglie il ricorso del 35enne e “bacchetta” le decisioni del Tribunale dei Minori e della Corte d’Appello di Roma. I rapporti «ostacolati» con la figlia, la lotta per la potestà g…

Pubblicato il: 24/08/2023 – 15:11
di Alessia Truzzolillo
Quattro anni di lotte per fare il padre. Per il collaboratore Mancuso il “riscatto” della Cassazione

ROMA Dopo quattro anni di lotte, l’ordinanza della Corte di Cassazione è come una mano sulla spalla. È un pezzo dello Stato che, dopo quattro anni di battaglie legali, riconosce il buon percorso intrapreso dal collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso. Non tanto il suo cammino come uomo scevro da legami criminali o come teste attendibile, ma come padre. Un mestiere, quello di genitore, che il 35enne attendeva di realizzare da quattro lunghi anni. La Corte di Cassazione ha accolto il suo ricorso rispetto al decreto di Corte d’Appello di Roma sulla potestà genitoriale e ha rinviato a una nuova decisione ad altra sezione della stessa Corte d’Appello.
Le parole degli ermellini sono importanti, sottolineano il grave pregiudizio coltivato in passato nei confronti del collaboratore, le difficoltà incontrate con i Servizi sociali competenti.
Il ricorso proposto da Mancuso, attraverso gli avvocati Antonia Nicolini e Giovanna Fronte – si basa su tre motivi, tutti accolti dalla Cassazione. Ma procediamo con ordine.

Solo per sua figlia

Voleva fare il padre, essere un buon padre Emanuele Mancuso, oggi 35 anni. Voleva che sua figlia crescesse lontano dagli ambienti di ‘ndrangheta nei quali era cresciuto lui. Mancuso aveva 30 anni e si trovava in carcere, accusato di tentata estorsione e danneggiamento, quando ha deciso, nell’estate del 2018, di strappare ogni legame col mondo agiato e criminale in cui era cresciuto. La ragazza con la quale aveva condiviso dieci anni della sua vita, Nensy Vera Chimirri, stava per partorire, stavano per diventare una famiglia, con un giovane padre già dietro le sbarre. Niente di cui preoccuparsi perché accanto alla mamma c’era un intero clan pronto a provvedere a tutto. Emanuele, però, dice “basta”. Si convince, parla coi magistrati della Dda di Catanzaro. È una notizia enorme, quando deflagra, non fosse altro perché a saltare il fosso era un ragazzo che apparteneva non a un semplice clan ma a un vero e proprio “casato” di ‘ndrangheta, potente, ricco, fatto di padri, madri, figli, generazioni che si davano il cambio. C’era stato chi si era allontanato, c’erano frizioni interne, ma nessuno mai aveva deciso di puntare il dito contro la famiglia. 

La ribellione

Emanuele Mancuso sa che, per quello che sta per fare, dovrà dire addio alla sua famiglia: al padre Pantaleone Mancuso detto “l’Ingegnere”, alla madre Giovanna del Vecchio, al fratello Giuseppe e alla sorella Desiree. Sa che sta per sobillare equilibri granitici. Equilibri che vengono meno già quando suo fratello, pure lui detenuto, viene a sapere della collaborazione. Dalle celle si scatenano le urla contro Emanuele. Ma questo è niente. Niente in confronto al desiderio frustrato di fare il padre. Perché la sua compagna non lo segue, non condivide la sua scelta. Emanuele Mancuso ha continuato a collaborare, a parlare, nonostante le pressioni della famiglia. Ma per quattro anni non ha potuto fare il padre. Perché non si può chiamare paternità vedere la propria figlia per 50 minuti, in una struttura fatiscente, una volta alla settimana.
Mancuso, insieme all’avvocato Antonia Nicolini, ribatte colpo su colpo alle decisioni del Tribunale dei Minori e della Corte d’Appello di Roma. Si ribella ai calendari e alla logica organizzativa dei Servizi sociali. Mancuso e l’avvocato mandano lettere ai giornali, segnalazioni al Garante dell’infanzia, al Presidente della Repubblica, al ministero dell’Interno, alle Procure, al Tribunale dei minorenni, alla Commissione centrale.

«La conflittualità non parte da me»

L’ordinanza della Cassazione fa una sintesi di questo percorso.
Nel ricorso Mancuso lamenta la limitazione della responsabilità genitoriale, con affidamento della bambina ai Servizi sociali, che l’autorità giudiziaria aveva addebitata «ad entrambi i genitori, per l’estrema conflittualità che connotava i loro rapporti, mentre invece tale conflittualità, per il ricorrente, era esclusivamente conseguenza del comportamento della Chimirri, che continuava a nutrire astio nei suoi confronti». C’è da precisare che Nensy Vera Chimirri – in seguito alle richieste di Mancuso di inserire lei e la figlia nel programma di protezione – aveva deciso di seguire la bambina in una struttura protetta pur non aderendo spontaneamente allo speciale programma di protezione nel quale era stata ammessa de plano dalla Commissione centrale. Il primo giugno 2021 il Tribunale per i minorenni di Roma aveva emesso un decreto non definitivo col quale confermava l’affidamento della bambina ai Servizi sociali con collocamento in casa famiglia insieme alla madre con divieto di prelievo e facoltà di incontri con il padre secondo il calendario disposto dai Servizi sociali e dal Servizio centrale di protezione. Entrambi i genitori venivano dichiarati inadeguati.
Alla Cassazione Mancuso spiega che la conflittualità con la sua ex compagna «derivava dal fatto che la madre della bambina non aveva voluto cambiare vita a seguito della scelta del ricorrente di collaborare con la giustizia, mantenendo i legami con il sodalizio criminale, così tenendo una condotta che si rifletteva negativamente sull’educazione della minore anche in rapporto alla figura paterna».
Nelle relazioni dei Servizi sociali «non vi era – reclama Mancuso – alcun riferimento a tale conflittualità» nonostante questi fossero presenti quando la piccola, durante le videochiamate «utilizzava termini non appropriati ad una minore quali “papà brutto” – “non voglio il papà” – “uccello canterino”, che dimostravano come la bambina subisse continue pressioni psicologiche dalla madre, ancora inserita in un contesto criminale, che portavano a screditare il Mancuso come padre agli occhi della figlia e ad allontanarlo da lei».

I rapporti «ostacolati» tra padre e figlia

Mancuso insiste: nel terzo motivo di reclamo afferma che «dalla documentazione prodotta i giudici di merito avrebbero dovuto rilevare che i rapporti tra padre e figlia erano stati sempre ostacolati, dapprima per volere della madre e, successivamente, anche per il modus operandi del Servizio sociale affidatario. Il ricorrente ha lamentato di aver incontrato la figlia per poche volte e per meno di un’ora a settimana, con discontinuità dei colloqui, subendo grave e irreparabile pregiudizio nell’esercizio del proprio diritto alla genitorialità, senza che il provvedimento in questa sede impugnato rispondesse a tale richiesta, dal momento che stabiliva solo approssimativamente che gli incontri potessero avvenire per un arco temporale superiore a quello fissato in precedenza».

Le “bacchettate” della Cassazione

La Corte di Cassazione bacchetta le decisioni prese in precedenza dal Tribunale dei Minori affermando che non sono state esaminate «le ragioni della conflittualità tra i coniugi, limitandosi a prendere atto della sua esistenza, senza valutarne comparativamente le cause e ponendo esclusivamente a carico del padre l’incidenza negativa del passato criminale sull’idoneità genitoriale e non sulla madre, nonostante le ponderose allegazioni relative alla contiguità attuale con tale ambiente da parte della madre. Così operando la duplice limitazione della responsabilità genitoriale ed in particolare il collocamento presso le madre con modalità molto restrittive di visita della minore da parte del padre determinate senza alcuna valutazione delle allegazioni relative alla rarefazione dei rapporti derivanti dall’opposizione materna, risultano non fondati sui principi giuridici che regolano l’esercizio della responsabilità genitoriale alla luce del principio della bigenitorialità».
Secondo gli ermellini, in sostanza, un giudice deve avere come criterio fondamentale «interesse morale e materiale della prole, privilegiando quel genitore che appaia il più idoneo a ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e ad assicurare il migliore sviluppo della personalità del minore».
In questo caso «la Corte d’appello ha dato atto, a differenza del Tribunale per i minorenni, che, a distanza oramai di diversi anni dalla scelta di collaborare con la giustizia, il Mancuso, non più sottoposto a misure restrittive della libertà, ha mostrato di aver reciso ogni legame con l’ambiente criminale di provenienza, seguendo il percorso di riabilitazione sociale definito col programma di protezione cui è stato sottoposto, ed ha anche depositato plurimi certificati medici, rilasciatigli dalle strutture pubbliche di riferimento, attestanti la sua perdurante mancata assunzione di droghe».
Nonostante questo, però, la stessa Corte d’Appello di Roma «ha ritenuto di dover disporre ugualmente l’affido della minore al Servizio Sociale» lasciando al padre limitate possibilità di visita e frequentazione della figlia con le difficoltà che Emanuele Mancuso ha sempre denunciato.
La Cassazione, poco prima di sancire l’accoglimento del ricorso, parla anche di «constatata evoluzione migliorativa delle condizioni di vita di uno solo» dei genitori. 

Scelte

C’è da dire che, rispetto all’evolversi degli eventi, questa ordinanza della Corte di Cassazione risulta superata. Già nel 2022 era stato revocato il programma di protezione a Nensy Vera Chimirri e pochi mesi dopo la donna è stata allontanata dalla località protetta. L’ordinanza contiene però un valore simbolico soprattutto per quello che la Suprema Corte afferma e sancisce.
Oggi Emanuele Mancuso riesce a fare il padre come mai gli era accaduto prima (anche se non ha ancora la potestà genitoriale). Non è un mistero che lui avrebbe voluto una famiglia unita: lo ha chiesto alla sua compagna quando stava ancora in carcere, poco prima che lei partorisse, poco prima che lui collaborasse. Ognuno, poi, ha fatto la sua scelta. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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