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Criaco: «Il problema della Calabria? Non ha un progetto»

Intervista con lo scrittore di “Anime nere”. L’idea (sbagliata) che i clan siano onnipotenti: «La loro sconfitta è un epilogo naturale»

Pubblicato il: 25/08/2023 – 6:55
di Emiliano Morrone
Criaco: «Il problema della Calabria? Non ha un progetto»

Gioacchino Criaco è uno scrittore calabrese molto produttivo, diventato famoso dopo la pubblicazione del suo romanzo “Anime nere” e legato al proprio territorio che racconta con passione, coraggio e profondità di analisi. Con lui oggi parliamo di letteratura e informazione per il fatidico quanto inflazionato riscatto dei calabresi; di problemi attuali come l’autonomia differenziata; del peso, in Calabria, della cultura tipica del clan, della cerchia, del familismo amorale; di forme mentali diffuse nella regione: l’autoreferenzialità, il vittimismo e la commiserazione; di ricostruzione del sapere come obiettivo primario.

Qual è il problema più grosso della regione?
«È evidente: nessuno ha mai strutturato un progetto Calabria. Se non esiste un traguardo da raggiungere, se manca una idea di cosa essere, il viaggio prosegue per inciampo, e a furia di inciampare ci si fa solo male».

L’autonomia differenziata è un’opportunità o una iattura per la Calabria?
«Ho sentito di una metafora, tempo fa, che mi è parsa calzante: “non t’amo più”, le parole dissolvono un rapporto lungo una vita. Lo stop a un amore, che forse non c’è mai stato, in cui uno dopo essersi preso tutto il bene dall’altro se ne va portandosi via l’argenteria. Ecco, l’autonomia somiglia a questo: le Regioni ricche, partendo da una posizione di vantaggio, rompono il rapporto con la parte più svantaggiata del Paese, che ha tanto contribuito al loro avanzamento. Differenziarsi sarebbe accettabile dopo aver colmato le differenze enormi esistenti. Al momento è una beffa».

Ha senso l’attuale regionalismo che deriva dalla discussa riforma costituzionale del 2001?
«Io mi domando se abbia senso continuare a confidare in una soluzione dei problemi da legulei. È come se tutto diventasse artificiale, se si ricorresse ad alchimie sofisticate quando basterebbe guardare al lato pratico delle cose, ai bisogni concreti delle comunità, che spesso prescindono da riforme legislative annunciate come salvifiche. Il problema non è ampliare i poteri locali ma diminuire la marginalizzazione delle comunità periferiche, diminuire i loro svantaggi costruendo una nuova idea di centro e di centralismo. Il problema è sempre più di classi dirigenti poco adeguate non di avanzamenti, sbracamenti normativi».

Nord e Sud sono distanti nei numeri dell’economia, dei servizi pubblici e dei diritti principali. Che cosa bisognerebbe fare per ridurre le diseguaglianze fra le due aree del Paese?
«Il Paese intero dovrebbe dedicarsi, anima e corpo, a progettare il Sud. Un Sud che si avvia a svanire non è una buona notizia per tutta l’Italia, è una voragine che si apre, dentro ci si finirà tutti. Bisognerebbe aprire il Cantiere Sud. Un’operazione colossale senza cui il Sud si avvicina alla dissoluzione». 

Funziona lo Stato sociale in Calabria?
«Diciamocelo: in Calabria lo Stato funziona, ha sempre funzionato, in quella declinazione definita repressione. Funzionano perfettamente le sue funzioni da ministero dell’Interno. La parte dura dello Stato. Le parti gentili, costruttive, arrancano in una salita che non ne vuol sapere di arrivare in cima».

La Calabria è molto indietro su istruzione, formazione e apprendistato?
«No, sull’istruzione non credo sia indietro. Penso di essere attendibile, giro da anni per scuole e università, in tutto il territorio nazionale: l’abbassamento della qualità dell’istruzione ha incrociato gli ambiti territoriali. Non esistono, oggi, grandi differenze qualitative; a volte ci sono eccellenze, a volte sono a Nord, altre al Sud. La formazione e l’apprendistato sono categorie poco conosciute al Sud, che non ha, a valle, una previsione di utilizzo dei risultati dell’istruzione. Più in generale, credo che senza una qualità altissima dell’istruzione, come tratto generale di possessi culturali, formazione e apprendistato diventino conquiste di retroguardia». 

Impresa, lavoro, assistenzialismo. Quali sono, in Calabria, i rapporti fra queste tre voci? 
«Imprese come testimoni solitari, scampoli della prova di una possibilità.  Il lavoro nelle imprese è sempre più di carattere residuale. Il lavoro come forma di assistenzialismo – che è stato per anni la linea guida delle amministrazioni meridionali pubbliche – si adegua alla diminuzione delle risorse. Si passa dal lavoro inattivo alla pensione, senza nemmeno una smorfia ad asseverare il cambio. Le partenze, che assumono i connotati dell’esodo, testimoniano il rapporto poco corretto dei tre elementi di un modello economico, culturale e sociale, che non attecchisce al Sud, che si potrebbe, si può non condividere. Sei il rapporto non lo si riesce ad armonizzare, si potrebbe pure mettere in discussione il modello».

L’idea dominante che la ’ndrangheta sia onnipotente è diventata un alibi della politica, un pretesto per non affrontare la realtà nella sua complessità?
«Da problema enorme, la ’ndrangheta, diventa sempre più spesso alibi. La presenza criminale, nei centri più piccoli, è effettivamente asfissiante. Rispetto alla sua onnipotenza avrei molti dubbi: raccontarne grandezza e invincibilità sono regali che non si dovrebbero fare, perché nessuna organizzazione è in grado di competere con le dimensioni statuali e nessun contesto criminale, statisticamente, vince. Anzi, la sconfitta dei cattivi è un epilogo naturale. Si tende spesso a considerare ’ndranghetistico ogni grumo criminale di matrice calabrese che operi fuori dalla regione: quasi mai è vero. I grandi trafficanti di droga spesso non sono ’ndranghetisti e fuori dai luoghi d’origine la ’ndrangheta non realizza quasi mai un controllo assoluto del territorio. La potenza della ’ndrangheta quale impedimento di sviluppo diventa alibi quando si persegua l’avanzamento con il solo strumento della repressione, che da essenziale diventa inefficace senza la compagnia di un progetto di sviluppo, senza lavoro, giustizia, servizi. Amplificare la potenza della ’ndrangheta serve, strumentalmente, a deresponsabilizzare le classi dirigenti. Il crimine è un mostro che non può resistere, se non in forme residuali, all’interno di uno Stato che davvero voglia costruire la normalità, prospettiva che al momento non sembra guidare l’azione statuale».

Che ruolo hanno e possono giocare letteratura e informazione impegnate, riguardo allo sviluppo culturale, economico e sociale della Calabria?
«Senza un tessuto culturale consistente, ogni prospettiva di avanzata è un azzardo, una premessa tradita in partenza. Compito degli intellettuali, di chi si ritenga impegnato in una prospettiva di bene comune, è informare continuamente, costruire consapevolezza, dare con esattezza dati e cifre della condizione in cui versi il contesto. È fondamentale avere una narrazione corrispondente alla realtà per prevedere rimedi, per scegliere una rotta. Intellettuali infedeli o arruffoni portano a scelte esiziali».

Autoreferenzialità, vittimismo e commiserazione sono diffusi nella mentalità di chi vive in Calabria, spesso tra professionisti e intellettuali. In che modo si potrebbe invertire la tendenza?
«Siamo vittime, come società, di una sindrome di subalternità che ci ha chiuso in un angolo: gli insegnamenti culturali hanno teso alle carezze, allo scoraggiamento, alla rassegnazione. Servono i cultori dell’incoraggiamento, della sfida, della lotta, non di resistenza passiva, delle epiche da nostalgia o testimonianza».

Sanità, ambiente, lavoro, trasporti, turismo, legalità e Pnrr sono argomenti molto importanti per il futuro della regione. Come sono declinati nel discorso pubblico e come potrebbero essere discussi, tematizzati?
«Sono temi trattati con mezzi e linguaggi sbagliati, a volte volutamente, che li tengono distanti dal territorio, dagli abitanti, dal popolo. La gente normale non partecipa alle discussioni, le ignora e le subisce. Perché nonostante i proclami la Calabria rimane feudo. La gente non vota, si vota al margine, si consegna alla fuga.  Il dibattito pubblico si spartisce fra sagre e slogan».

Perché spesso per affermarsi bisogna andare via dalla Calabria? È un luogo comune, un destino inevitabile o il risultato di incompetenza, pigrizia, incultura e cattiveria individuale?
«Perché purtroppo la nostra è ancora la terra del clan, della cerchia, del familismo amorale più che immorale. E: o appartieni o non sei, e abbiamo più necessità di sviluppo sociale e culturale che di progresso economico».

Quali sono le risorse materiali od immateriali su cui la Calabria dovrebbe puntare di più?
«Fossi investito di capacità decisionali e di governo, sognerei un unico punto programmatico su un’ipotetica agenda: la ricostruzione del sapere. Siamo figli di una cultura che ha costruito un sistema di sapere che era la mano tesa per agganciarsi a un normale processo evolutivo. Quel sapere strutturato è stato stoppato e poi smembrato pezzo a pezzo. Va ricostruito, va superata la cesura e va ripresa la linea evolutiva in un percorso che sia a noi congeniale. Non possiamo seguire schemi non adatti a noi: non siamo adatti ad ogni tipo di sviluppo economico, ma dobbiamo pensare a una espansione produttiva di tipo diverso.  Senza fare guerra all’Occidente, ma tenendo conto di uno spirito d’Oriente che ci spira alle spalle, di un’anima mediterranea che è infissa nella nostra genetica».

Che cosa si augura Gioacchino Criaco per il futuro della Calabria e dei calabresi?
«Che sia debellato il pericolo che ci incombe addosso, la nostra estinzione come civiltà, di essere già tutti andati nel giro di pochi decenni». (redazione@corrierecal.it)

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