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‘NDRANGHETA

Omicidio Aloisio, quando la “famiglia” uccide la famiglia

Incroci di sangue tra vittima e carnefici. Da genero del boss Giuseppe Farao a nemico della cosca. Il desiderio di vendicare la morte di zio “Cenzo” e la paura del clan: «Vuole toccare uno di noi»

Pubblicato il: 30/08/2023 – 7:00
di Alessia Truzzolillo
Omicidio Aloisio, quando la “famiglia” uccide la famiglia

MILANO Il cadavere di Cataldo Aloisio è stato ritrovato in un campo, nel Comune di San Giorgio su Legnano, al mattino presto del 27 settembre 2008 da un imprenditore edile che doveva costruire uno stabile e aveva intenzione di prelevare della sabbia da quel terreno. Il corpo bocconi, il cranio insanguinato. Tutto lasciava presagire che si fosse trattato di una esecuzione: un colpo alla nuca da distanza ravvicinata. 
San Giorgio su Legnano è uno dei tanti Comuni della città metropolitana di Milano ormai “contagiata” dal resistente cancro della ‘ndrangheta. Così gli investigatori, in un primo momento, hanno collegato una singolare coincidenza: il cadavere era stato ritrovato vicino a un cimitero nel quale giacciono le spoglie di Carmelo Novella, ucciso a San Vittore Olona pochi mesi prima, il 14 luglio 2008. 

La suggestione su Carmelo Novella

Novella era un personaggio «storico in processi di criminalità mafiosa lombarda (e non solo)», sottolineano i giudici della prima sezione della Corte d’Appello di Milano. 
Classe 1950, era «capo di un locale lombardo di ‘ndrangheta (Legnano- Bollate) nonché a capo de “La Lombardia”, intesa quale struttura sovraordinata che confederava e, si teme, tuttora “confederi”, i locali di ‘ndrangheta della Regione».
Lo ‘ndranghetista, definito anche il “secessionista lombardo” è stato ucciso – raccontano i killer, oggi collaboratori di giustizia, Antonino Belnome e Michael Panajia – per volere della casa madre calabrese che aveva emesso la sentenza di morte dopo un summit della Provincia criminale in Calabria. Non si poteva rischiare che Novella desse esecuzione al proprio piano di tagliare il cordone ombelicale con le famiglie del Sud. I due assassini lo hanno freddato mentre si trovava nel Circolo Reduci e Combattenti di San Vittore Olona.

L’omicidio di Aloisio partito dalla Calabria

Anche l’omicidio di Cataldo Aloisio, racconta la sentenza della Corte d’Appello di Milano, ha avuto un preciso ordine partito dalla Calabria, per l’esattezza da Cirò Marina, dove domina la cosca Farao-Marincola.
In secondo grado, per l’omicidio Aloisio, in cinque sono stati condannati all’ergastolo: Silvio Farao e Cataldo Marincola, capi storici dell’omonima cosca (assolti in primo grado), Francesco Cicino, e Vincenzo Farao (anche loro assolti in primo grado), mentre è stata confermata la condanna al fine pena mai di Vincenzo Rispoli, boss di Legnano e Lonate Pozzolo, cellula al Nord del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò.
Nella sentenza viene fatto il conto delle parentele, che non sono cosa da poco.
«L’omicidio è stato senz’altro deciso, organizzato, preordinato ed alfine eseguito perché rispondente a logiche interne e a dinamiche criminali che governavano, in quel momento, il locale di ‘ndrangheta (di Cirò-Cirò Marina, nel Crotonese), dominato dalle famiglie mafiose, storicamente alleate fra loro, dei Farao e dei Marincola, legate all’omologo e “gemellato” locale lombardo di Legnano-Lonate Pozzolo», scrivono i giudici.
«Meglio precisare da subito – è scritto in sentenza – che il contesto criminale in cui il delitto sarebbe maturato non è soltanto quello della “Famiglia” nella sua accezione mafiosa e della “appartenenza di cosca” ma anche quello della famiglia naturale intesa come cerchia parentale, di affinità e consanguineità». E qui partono gli intrecci familiari.
Cataldo Aloisio era genero di Giuseppe Farao, classe 1947, capo locale della consorteria cirotana, che da molto tempo si trova in carcere ed è stato a lungo sostituito nella reggenza dal fratello minore Silvio Farao, affiancato da Cataldo Marincola.
Anche il capo cosca di Legnano e Lonate Pozzolo, Vincenzo Rispoli, è imparentato con i Farao perché ha sposato la sorella di Giuseppe e Silvio Farao. Un altro imputato, Vincenzo Farao, è figlio di Giuseppe Farao, di conseguenza è cognato della vittima e cugino di Vincenzo Rispoli.
Ma c’è un altro attore in questa scena: Francesco Farao, collaboratore di giustizia, figlio del boss Giuseppe Farao, fratello di Vincenzo Farao e anche lui cognato della vittima.

«Stava dando un pochettino fastidio»

Un «teste prezioso per l’accusa», Francesco Farao, 42 anni, scrivono i giudici, che darà una svolta investigativa al caso. È il 2018 quando l’ultimogenito del boss viene arrestato dalla Dda di Catanzaro nell’ambito dell’operazione “Stige” eseguita contro la cosca di Cirò Marina. Poche settimane dopo decide di collaborare e il 17 gennaio 2018 indica i responsabili della morte del cognato: suo zio Silvio Farao, Cataldo Marincola, reggente assieme allo zio Silvio del Locale di Cirà (in ragione della detenzione di suo padre Giuseppe), suo fratello Vincenzo Farao e suo cugino Vincenzo Rispoli.
«… mi ero trovato a parlare con mio fratello Vincenzo, che mi spiegava che mio cognato non si stava comportando bene, che creava sempre problemi, tutta questa situazione qua, che stava dando un pochettino fastidio …», spiega il collaboratore che aggiunge un particolare importante: il carattere fumantino e provocatore di Cataldo Aloisio – «a volte faceva delle cose proprio per fargliele appositamente, per farli parlare» – si era accentuato con l’omicidio dello zio Vincenzo Pirillo

I collegamenti con la morte di Cenzo Pirillo

Sì perché Cataldo Aloisio non era solo genero di Giuseppe Farao, era anche nipote di un altro importante reggente della cosca di Cirò, “Cenzo” Pirillo, collocato, pro tempore, ai vertici del locale in “precaria” assenza dei capi – Silvio Farao e Cataldo Marincola – latitanti per sottrarsi a una condanna per omicidio.
Il cinque agosto 2007, Pirillo viene ucciso in un affollato ristorante di Cirò Marina. Secondo la ricostruzione dei fatti, a Pirillo, detto “Cenzo”, la criminalità cirotana contestava la gestione della “bacinella”, la cassa comune del clan nella quale si riversano i soldi sporchi delle estorsioni, del traffico di droga e degli affari illeciti, destinati, tra l’altro, al mantenimento dei detenuti. Alle orecchie della cosca era giunta notizia dei propositi di vendetta da parte di Cataldo Aloisio.

«Ce la vediamo noi»

Francesco Farao riferisce agli investigatori che nel corso di un incontro «in una montagna», Cataldo Marincola aveva affrontato l’argomento «riferendosi a Cataldo Aloisio (più volte dispregiativamente definito “un pisciaturo di m..”), senza mezzi termini gli aveva detto: “tuo cognato è un pisciaturo, ce la dobbiamo vedere noi…si comporta male c’ha una brutta testa, vuole toccare uno di noi”».
Inutili i tentativi di Francesco Farao di mediare, di riportare alla mente il fatto che Aloisio fosse il padre dei suoi piccoli nipoti. L’attuale collaboratore si offrì anche di risolvere la faccenda personalmente, di salire al Nord e dare una lezione ad Aloisio: «Glielo faccio io un paliatone?» Ma Marincola rifiutò: «Ce la vediamo noi».
Francesco Farao capì che la sentenza era stata emessa e la macchia di morte si stava muovendo. (a.truzzolillo@corrierecal.it)

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