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Bevilacqua: «La Calabria deve smettere di scimmiottare il Nord»

Intervista con lo scrittore e naturalista per anni delegato regionale del Wwf: «C’è bisogno che i calabresi si risveglino dal “coma topografico”»

Pubblicato il: 01/09/2023 – 7:00
di Emiliano Morrone
Bevilacqua: «La Calabria deve smettere di scimmiottare il Nord»

LAMEZIA TERME Francesco Bevilacqua è avvocato, giornalista, scrittore, fotografo naturalista, autore di documentari e contenuti televisivi. Lametino, è stato delegato regionale del Wwf e ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui l’“Umberto Zanotti Bianco”, per il proprio impegno come ambientalista. Oggi con lui parliamo del presente e del futuro della Calabria, come nelle precedenti uscite con gli altri intervistati del nostro “Cantiere”, soffermandoci su problemi di mentalità, sull’autonomia differenziata e su ’ndrangheta e vittimismo come alibi ricorrenti di politici e intellettuali.

Qual è il problema più grosso della regione?
«Il problema più grosso della Calabria siamo noi calabresi. Non tutti naturalmente, ma una buona parte. Non voglio dire, parafrasando il titolo di un saggio di Benedetto Croce, originato da un vecchio detto riguardante Napoli, che la Calabria è “un paradiso abitato dai diavoli”. Voglio piuttosto dire che moltissimi calabresi non conoscono a sufficienza la Calabria, non ne conoscono la storia, la geografia, l’antropologia, la letteratura e quindi non comprendono le peculiarità, l’eminenza, il valore reale della loro terra. Occorrerebbe che i calabresi guarissero dall’“amnesia dei luoghi”, si risvegliassero dal “coma topografico”. Il peccato di omissione in cui viviamo come popolo, io lo chiamo “rimosso territoriale”. Per ovviarvi, sarebbe necessario far emergere dall’inconscio collettivo il nostro “paesaggio interiore”. È il frutto amaro di quello che Carlo Levi, Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Berto definivano “complesso di inferiorità collettiva” della civiltà contadina della Calabria (Levi, ovviamente, si riferiva alla Basilicata) rispetto alla civiltà industriale del Nord. A furia di sentir magnificare dai nostri emigranti la ricchezza e la bellezza del Nord, abbiamo creduto che la Calabria fosse in uno stato di inferiorità ineluttabile. Così abbiamo cominciato ad imitare tutto il peggio del Nord. Per fortuna, a parte le colate di cemento e asfalto ed il disastro urbanistico di città e paesi, l’imitazione ci è riuscita male ed una parte del territorio, soprattutto nell’interno, si è salvato. Dovremmo ripartire da qui, evitando di fare altri danni e, come diceva Franco Cassano, cominciare a ri-guardare i luoghi, nel duplice senso di tornare a guardarli e di averne riguardo».

Il ministro Roberto Calderoli promotore della riforma sull’Autonomia differenziata

L’autonomia differenziata è un’opportunità o una iattura per la Calabria?
«È un argomento molto tecnico. I giornali (ed anche i politici) non hanno mai fatto nulla per farci capire i meccanismi reali dell’autonomia differenziata. Ma questo è un problema generale: viviamo in una società bulimica di informazioni, ma del tutto disinformata. Perciò è difficile dare un giudizio. Chi parla di autonomia differenziata, in un senso o nell’altro, normalmente bleffa. Lo fa per pura propaganda. Salvo che non si tratti di un tecnico che conosce bene l’argomento. Osservando il fenomeno da un punto di vista culturale e psicologico, invece, potrei dire che ogni volta che qualcuno ci mette in condizione di prendere nelle mani il nostro destino o ci induce a cavarcela da soli, per me si tratta di un’operazione utile, è l’occasione per emanciparci da quella che a me pare un’eterna “fanciullezza”: abbiamo sempre bisogno di tutori, di qualcuno che ci assista, ci indichi la strada, pianifichi il nostro sviluppo, ci sostenga, ci dica quel che è giusto o sbagliato per la Calabria. Come calabresi dovremmo divenire adulti ed assumerci le nostre responsabilità. Sono contrario a qualunque provvidenza economica creata appositamente per la Calabria: quasi tutti questi interventi si sono rivelati, nel tempo, fallimentari: dalla riforma agraria del 1950 al “pacchetto Colombo”, agli aiuti più recenti. Una valanga di soldi sperperati in buona parte per opere inutili e finita nelle tasche di speculatori che con la Calabria poco avevano a che fare».

Ma la Calabria non è già svantaggiata?
«Certo, la Calabria da un lato e le regioni del Nord dall’altro partono da situazioni completamente differenti: di estremo svantaggio la prima, di vantaggio le seconde. Sicché, questo gap andrebbe in qualche modo colmato. Il principio di solidarietà fra le zone più ricche del Paese e quelle più povere andrebbe salvaguardato. Ma non deve diventare un alibi per stare con le mani in mano per chi ne beneficia».

Nord e Sud sono distanti nei numeri dell’economia, dei servizi pubblici e dei diritti principali. Che cosa bisognerebbe fare per ridurre le diseguaglianze esistenti?
«È una domanda alla quale è estremamente difficile rispondere. Io mi occupo di cultura e farei un azzardo a dare ricette che non mi competono. Ma siccome sono convinto, a differenza di altri, che con la cultura si può anche mangiare, qualcosa mi sento di poterla dire. Innanzitutto occorre aver chiaro cosa vuol dire per me cultura. Intendo cultura non in senso di quantità di libri ed autori letti, ma in senso antropologico: per me cultura è il modo di concepire la vita e di vedere il mondo da parte di una comunità, di una popolazione. Premesso questo, penso che abbiamo fallito, come calabresi, nel momento in cui abbiamo pensato allo sviluppo della Calabria ad imitazione di quello del Nord».

Cioè?
«Mi riferisco, ad esempio, ad una industrializzazione fatta di industrie pesanti (siderurgia, chimica et cetera) che il Nord aveva già e sapeva far funzionare molto meglio di noi. Oppure penso ad un turismo ad imitazione di quello dell’Emilia-Romagna per il mare o del Trentino Alto-Adige per le montagne. Ancora una volta, la penso come Cassano: dobbiamo smetterla di pensare al Sud, nel nostro caso alla Calabria, come ad un “non ancora dello sviluppo”. Noi non siamo sottosviluppati, siamo solo diversi, più poveri certamente, con un pensiero più arcaico, più legato ai cicli naturali, alla tradizione; siamo più affini alle regioni del Mediterraneo che a quelle del Centro Europa. Ed è nel Mediterraneo che dobbiamo cercare una via per migliorare la situazione economica e sociale della Regione, con tutte le diversità, i “limiti” (intesi come intendeva il limite e la misura Albert Camus), i distinguo del caso. In questo è del tutto evidente che non c’è nulla di inguaribile nella nostra condizione, se solo consideriamo quante intraprese private che io chiamo vocazionali (ossia legate alle vocazioni dei luoghi) funzionano bene in Calabria, nonostante le carenze dei servizi, delle infrastrutture, della burocrazia».

Per esempio?
«Un solo esempio fra i tanti che, occupandomi di cose di Calabria, mi è capitato di conoscere. Qualche anno fa, il direttore di un parco urbano di Milano mi chiese di indicargli un vivaio forestale calabrese che gli fornisse 30mila querce da semi calabresi. Mi misi all’opera e mi imbattei in Allasia Plant-Magna Grecia di Soveria Mannelli, vivaio forestale privato che “alleva” e vende ogni anno milioni di alberi e arbusti della Calabria e del Sud Italia in tutt’Europa. Mi spiegò l’amministratore Franco Fazio che gli alberi e gli arbusti certificati calabresi sono molto appetiti nelle opere di rimboschimento e piantumazione nel Centro Europa. Ciò perché si tratta di piante abituate alla siccità ed alle temperature alte, quindi maggiormente in grado di resistere ai cambiamenti climatici. È solo uno dei tanti esempi che dimostrano che si può fare impresa anche in Calabria purché non si scimmiottino le cose del Nord Italia, perché quelle cose, al Nord, le sanno fare meglio di noi. Quanto ai servizi pubblici potrei portare decine e decine di esempi di cose che funzionano anche in Calabria quando chi dirige le aziende o i settori di esse è persona qualificata e non gli vengono messi i bastoni fra le ruote. Purtroppo, in Calabria sembra che vi sia, invece, un interesse a mantenere tutto ciò che è pubblico in una situazione di eterna disfunzione, per poter continuare a lucrare indebitamente su queste situazioni».

Uno scorcio del parco nazionale dell’Aspromonte

Ambiente, paesaggio, beni culturali, beni comuni. Qual è la loro condizione in Calabria? Che cosa si è fatto per promuovere e tutelare codeste risorse e che cosa si dovrebbe e potrebbe ancora fare in proposito?
«La Calabria è una regione di rovine. Detta così potrebbe sembrare che sia stato tutto distrutto. Sennonché, come diceva Marc Augé, c’è una profonda differenza fra le macerie e le rovine: le prime sono afone, incapaci di raccontare; le seconde sono eloquenti, traboccanti di narrazioni. In questo senso la Calabria non è una regione di macerie, anche se ve ne sono tante, ma di rovine, con un’incredibile quantità di storie da raccontare a chi vuol conoscerla, viverci, visitarla. I paesaggi – per paesaggio intendo un coacervo di natura e cultura, di naturale ed umano, così come viene percepito dagli osservatori – della Calabria sono unici, estremamente variegati, pieni di angoli sconosciuti, di civiltà ancora sepolte. Siamo la terza regione d’Italia, dietro le due grandi isole, per lunghezza del perimetro costiero – 750 km, secondo Lucio Gambi –, due mari e decine di tratti di costa completamente diversi l’uno dall’altro. Eppure, diceva Predrag Matvejević, “la Calabria è un’isola senza il mare”, alludendo alla prevalenza storica, culturale e geografica delle montagne rispetto alle coste. Ed infatti possediamo almeno cinque grandi massicci montuosi che sono regioni nella regione, isolate ed isolatrici, come intuirono Giuseppe Isnardi ed Augusto Placanica. E su di esse vi sono 468mila ettari di foreste che ci pongono fra le prime quattro regioni più forestate d’Italia. Montagne stridentemente differenti l’una dall’altra: basti pensare al Pollino, alla Sila, all’Aspromonte. Abbiamo poi centinaia di piccoli paesi sconosciuti ai più, zone archeologiche ancora da scavare e riportare alla luce, una letteratura (anche quella contemporanea) di assoluto valore: penso agli Abate, ai Gioffrè, ai Gangemi, ai Teti, ai Criaco, agli Occhiato, ai Dara, ai molti altri che hanno saputo rinverdire i fasti della letteratura calabrese dell’Ottocento e del Novecento, Padula, Alvaro, De Angelis, Perri, Repaci, Strati, Montalto, Seminara e non solo. La letteratura è importante perché ci aiuta a capire la Calabria ed i calabresi in modo piacevole ed attraverso storie che hanno sempre un fondo di verità; ho provato a spiegarlo nel mio “Lettere meridiane, cento libri per conoscere la Calabria”. Le altre arti non sono da meno, anche se poco o nulla conosciute dal grande pubblico. Anche qui, possiamo certo lamentarci che la politica non si occupi a sufficienza dei beni culturali ed ambientali, ma perché non ci domandiamo cosa facciamo noi per proteggerli e valorizzarli. Abbiamo visto di recente, fra Monterosso Calabro, Capistrano e Polia, con la vicenda del parco eolico nella faggeta di Monte Coppari, che, quando le amministrazioni locali, le comunità e le associazioni sono compatte nel ri-conoscere il valore dei propri luoghi e nell’opporsi alle devastazioni, anche le battaglie più difficili si possono vincere. Credo che ciascun calabrese dovrebbe sentirsi “istituzione” pubblica egli stesso e come tale comportarsi, come sta avvenendo, ad esempio, a Scala Coeli con la discarica che ha inquinato il Fiume Nicà e la sua bio-valle».


L’idea dominante che la ’ndrangheta sia onnipotente è diventata un alibi della politica, un pretesto per non ammettere le proprie responsabilità , per restare ferma e non agire?
«Innanzitutto, dobbiamo metterci in testa una volta per tutte che la politica non è una astrazione o un iperuranio staccato dalla realtà. La politica calabrese, come quella italiana, è, nel bene e nel male, quella che ci meritiamo. E, ribadisco, anche i cittadini sono politici inconsapevoli attraverso le loro azioni ed omissioni e perfino istituzioni quando riescono ad incidere sulla realtà, modificandola. Non penso che la criminalità organizzata sia onnipotente in Calabria. Certamente non lo è più di quanto non lo sia a New York, a Bruxelles, in Germania, in Giappone, in Russia, nei Paesi iper-corrotti del Terzo Mondo come nelle presunte democrazie occidentali. Certo, in Calabria la ‘ndrangheta è pervasiva, ma questo non può divenire un alibi per non fare o per stare sempre concentrati sul problema criminalità e distrarci da tutto il resto. Vedo tanta gente che si ribella alla criminalità organizzata come alla mala politica. Non vedo assuefazione. E in fondo abbiamo anche tanti casi, accanto ad un immobilismo generalizzato più o meno indotto dalle condizioni disastrose in cui versano gli enti locali – molti dei quali sono di fatto falliti economicamente –, di amministratori che amano il loro territorio e le loro comunità e si impegnano con spirito di servizio. Ma questi esempi dovrebbero divenire la regola e l’immobilismo l’eccezione. Non è facile perché la situazione complessiva, in Italia, è veramente grave».

Autoreferenzialità, vittimismo e commiserazione sono diffusi nella mentalità di chi vive in Calabria, pure tra professionisti e intellettuali. In che modo si potrebbe invertire la tendenza?
«Non credo che si tratti di vizi solo calabresi. La tendenza ad essere autoreferenziali è diffusa ovunque, almeno in Italia, fra gli intellettuali, gli opinionisti, i grandi giornalisti, i cosiddetti esperti: basta guardare un talk-show in tv o leggere gli editoriali sulle grandi testate. L’abitudine ad autocommiserarsi è anche un vizio italiano, forse più radicato al Sud. Ma la ragione risiede, a mio parere, nel complesso di inferiorità di cui ho già parlato. Quelli che invece mi fanno indignare sono gli “scoraggiatori seriali”, come li chiama Franco Arminio, ossia quegli intellettuali che stanno sempre a rosicare. Vede, così come c’è la scienza applicata, dovrebbe esserci anche la cultura applicata, ossia una cultura che serva ad aiutare la gente comune, ma anche gli amministratori pubblici, a capire, a fare, ad operare, a cambiare quel che non va. Dovremmo smetterla di autocompiacerci e di commiserarci ed avere invece compassione, nel senso buddista del termine, per gli altri, per i luoghi, per le comunità, anche per gli amministratori e perfino per chi sbaglia. Mentre ormai viviamo in una società dell’invidia, del rancore e della vendetta. Dappertutto, naturalmente».

Contro l'esodo dei calabresi che hanno perso la speranza non bastano le statistiche (né le preghiere)
In migliaia ogni anno lasciano la Calabria in cerca di un futuro altrove

Perché spesso per affermarsi bisogna andare via dalla Calabria? È un luogo comune, un destino inevitabile o il risultato di incompetenza, pigrizia, incultura e cattiveria individuale?
«Dipende da cosa si vorrebbe fare in Calabria. Se un nostro figlio vuol diventare un “grande” chirurgo, un “grande” avvocato, un “grande” architetto, un “grande” economista, un agente di borsa e così via, è evidente che è nato in Calabria solo per caso e il suo destino è nel Nord Italia o fuori dall’Italia. È giusto che vada via e si faccia una vita per lui felice dove meglio crede. Diceva Rainer Maria Rilke che si nasce solo provvisoriamente in un luogo. Ma andar via dalla Calabria non è obbligatorio. Chi pensa di voler restare può farlo senz’altro, ma deve mettere in conto che non troverà la tavola apparecchiata, che dovrà faticare dieci volte di più per farsi strada che non a Milano o a Bologna o a Roma. Poi deve capire che certe professioni, certi mestieri, certe imprese in Calabria non funzionano e non funzioneranno mai. La Calabria non potrà mai essere uguale alla Lombardia. Mentre vi sono ambiti in cui la Calabria è molto più vocata di altre regioni: penso all’agricoltura di qualità, al turismo di qualità, ai servizi, a certe manifatture, perfino nelle aree interne. L’ho spiegato prima, facendo anche degli esempi. Ne potrei fare molti altri».

Ne basta qualcuno.
«Qui mi sento solo di raccontare due storie esemplari. La prima è quella di Selene Rocco, una giovane che doveva diventare avvocato a Bologna. Ad un certo punto non tollerava più la grande città, i suoi rumori, il suo odore, il suo affollamento. Ricordava con nostalgia la sua terra, il Pollino. È tornata giù, a Morano, ed è andata a vivere in un posto sperduto sotto Cozzo Barbalonga, a Campotenese, in una casa che i genitori usavano solo d’estate. Ha iniziato con un B&B per i visitatori del parco del Pollino. Poi, un giorno, ha scoperto una specie di lavanda selvatica che vegetava solo sul Pollino ed ha cominciato a coltivarla. Facendo ricerche ha visto che fino alla prima metà del Novecento, a Morano si coltivava artigianalmente la lavanda per venderla ad una casa farmaceutica di allora, la Carlo Erba. Oggi Selene gestisce una grande piantagione di lavanda e produce distillati, oli essenziali, saponi, candele profumate ed il suo “Parco della lavanda”, con i profumi, i suoi colori, i paesaggi da sogno, accoglie ogni anno decine di migliaia di visitatori e centinaia di scolaresche».

E la seconda storia?
«È quella di Ginevra dell’Orso, una interior designer che viveva fra Milano e Los Angeles. A un certo punto ha capito che quella non era la sua vita. Girando per l’Italia si è imbattuta in un piccolo paese calabrese del basso versante ionico, Isca sullo Ionio, collinare e con poche centinaia di residenti. Si è trasferita lì con tutta la famiglia. Si è messa a produrre calendari dell’orto – la botanica era una sua vecchia passione –, che vende via Internet ed a scrivere un continuo, sincero elogio della Calabria attraverso i social ed i giornali. Ultimamente ha scritto: “Puoi comprare una borsa di Gucci oppure una casetta da ristrutturare in un antico paese davanti al mare e cominciare a sognare. Con il rischio, chissà, di essere felice”».

Che cosa si augura Francesco Bevilacqua per il futuro della Calabria e dei calabresi?
«Alla Calabria auguro, junghianamente, di realizzare sé stessa, non altro da sé. Carl Gustav Jung e poi il suo allievo James Hillman spiegano che l’autorealizzazione, il raggiungimento del proprio daimon, del proprio destino buono, non vale solo per gli uomini ma anche per i luoghi. Su questo tema ha scritto anche un grande architetto del paesaggio, Christian Norberg-Schulz. Sino ad oggi la Calabria ha provato a scimmiottare il destino di altri luoghi. Per questo ha pagato un prezzo altissimo in tema di scempi ambientali, di caos urbanistico, di cementificazione, di devastazione delle bellezze naturali, di abbandono del proprio patrimonio storico-artistico, di cancellazione sistematica della memoria. È il momento che trovi la sua strada. In questo senso, ritengo che sia un segnale importante la decisione del presidente Roberto Occhiuto di far chiudere la centrale a biomasse del Mercure, ubicata nel cuore del Parco nazionale del Pollino, perché incompatibile con la destinazione ambientale dell’area. Speriamo che seguano altri segnali, a tutti i livelli. Ai calabresi auguro, invece, di trovare la strada di casa, qualunque essa sia, la Calabria o l’estero. Ma se decidessero di restare in Calabria, sappiano che non avrebbe alcun senso vivere qui senza imparare a conoscere ogni stanza di quella casa. Scriveva Thomas Eliot: “Non cesseremo mai di esplorare, e alla fine di tutto il nostro esplorare arriveremo al punto di partenza e conosceremo quello stesso luogo per la prima volta”». (redazione@corrierecal.it)

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