È tarda sera a Soriano Calabro ma è anche piena estate ed è normale che nella piazza centrale del paese ci siano decine di persone, forse centinaia. Perlopiù sono ragazzi, entrano ed escono dal cortile del vecchio convento dei padri domenicani, un simbolo maestoso e decadente del XVI secolo del piccolo comune della provincia di Vibo Valentia. Raccontano le cronache che fu proprio lì che nel 1530 Lorenzo da Grotteria ebbe la visione della Madonna, accompagnata dalla Maddalena e da Santa Caterina d’Alessandria, che gli consegnarono un dipinto con impressa sopra l’immagine di san Domenico di Guzmán, il predicatore spagnolo che riuscì a convertire gli eretici del suo tempo con il rosario.
In un’ala di quella struttura, distrutta dai terremoti e in parte ricostruita, da qualche anno risiedono il Municipio e una raccolta di reperti dell’antico edificio.
A Soriano il 30 agosto del 1997 fa caldo, e in quel cortile si sta disputando una partita di un torneo di calcetto a cui la Pro Loco e l’intero paese tengono da sempre. Una partita accesa, come tutte le altre di quella competizione estiva avvolta di spensieratezza, tifo e sorrisi.
Domenico Macrì si trova tra la folla ad assistere alle fasi del gioco. Ha 19 anni ed è iscritto al secondo anno di Giurisprudenza all’Università di Catanzaro.
I rumori, il vocìo e le distrazioni della serata non gli consentono di rendersi conto che gli si sta avvicinando un’automobile, una Fiat Uno di colore chiaro. All’interno ci sono tre persone, forse quattro, stranamente incappucciate, ma nessuno sembra averci ancora fatto caso. A un tratto, nonostante la presenza di tutta quella gente ammassata e in continuo movimento verso un giardino dal quale emergono grandi pini secolari, la macchina rallenta la sua andatura, i finestrini si abbassano e in un attimo si vedono spuntare fuori delle pistole e dei fucili. Sono caricati a pallettoni e la scena si trasforma immediatamente in quella di un film datato di gangster americani, a metà tra la finzione e la realtà. Iniziano a fare fuoco nella direzione di Domenico che non ha neanche il tempo di voltarsi, di guardare, di capire cosa sta accadendo. Viene colpito alla gamba e cade a terra. Poi altri due spari che lo centrano al torace e alla testa. La partita di calcetto si ferma, le urla riempiono il panico, chi può scappa alla ricerca di un riparo, anche perché le fucilate sono tante, arrivano all’impazzata e finiscono per raggiungere altre persone. Due di queste cadono a terra, si chiamano Francesco Prestanicola e Pasquale Fuscà. Quest’ultimo è un camionista calabrese di quasi quarant’anni che sta trascorrendo le sue vacanze a Soriano. È quello che, oltre a Domenico, subisce i danni maggiori: i colpi gli recidono il braccio destro.
I killer, terminato il loro compito, si dissolvono nel nulla. Poi arrivano i soccorsi per trasportare d’urgenza i feriti in ospedale. Il più grave, ovviamente, è Domenico Macrì. La corsa in ambulanza è disperata, si tenta di tutto per rianimarlo ma una volta giunto a destinazione, il suo cuore smette di battere.
Pasquale Fuscà è più fortunato. I medici, seppure a fatica, riescono a evitargli l’amputazione dell’arto. Ma impiegherà diversi anni a recuperare fisicamente e psicologicamente da quell’evento. Una volta ripresosi definitivamente, si renderà protagonista, stavolta non da vittima innocente, di un altro episodio inquietante: dopo un litigio per strada, ferirà un automobilista con sette colpi di pistola. Quella sera terribile del 1997, però, Pasquale Fuscà non ha colpe e riesce a sopravvivere.
La disperazione dei familiari di Domenico Macrì è enorme. Già le prime indagini di carabinieri e polizia annientano soprattutto l’animo già provato del padre del ragazzo. Inizialmente gli inquirenti non pensano che l’obiettivo dell’agguato fosse Domenico. Uno studente universitario così giovane cosa c’entra con certe dinamiche criminali? Invece, un paio di giorni dopo la tragedia, una telefonata anonima svela ai militari cosa è successo prima di quel terribile 30 agosto: il furto dell’automobile subìto dal padre, aveva spinto Domenico Macrì a raggiungere Gerocarne, altro piccolo paesino a due passi da Soriano. Qualcuno gli aveva detto che forse lì avrebbe potuto avvicinare gli autori del furto e convincerli a restituirgli il mezzo. Un paio di giri prima di riuscire ad avere un faccia a faccia con un ragazzo, da cui sarebbe nata una violenta rissa. Poi Domenico era andato via, convinto di poter recuperare in un secondo momento l’automobile del padre. Si sbagliava.
Nei giorni successivi, su disposizione della Procura della Repubblica di Vibo Valentia, vengono fermati Giuseppe Loielo e Giuseppe Taverniti, sospettati di essere gli autori dell’omicidio di Domenico Macrì. Sono accusati di strage. Vengono emessi altri provvedimenti di fermo nei confronti di altri presunti complici, tra questi figura anche Roberto Morano. Nel successivo processo di primo grado, Giuseppe Taverniti chiede il giudizio abbreviato e viene assolto, per poi essere condannato all’ergastolo in Corte d’Assise d’Appello a Catanzaro. La sentenza viene annullata con rinvio dalla Cassazione (con riferimento alla sola ritenuta sussistenza dell’aggravante dei futili motivi). Nel 2007 la Corte d’Assise d’Appello, chiamata nuovamente a giudicare Taverniti, esclude la sola aggravante dei futili motivi e lo condanna a 17 anni e sette mesi di carcere.
Nel 2005 era stato condannato a 16 anni di reclusione Roberto Morano, considerato affiliato della famiglia mafiosa dei Loielo di Gerocarne, nel Vibonese. Dopo un anno di latitanza, era stato arrestato nel 2006 all’interno di una villetta tra Davoli e San Sostene, nel Catanzarese, in compagnia della moglie.
La cosiddetta strage di Soriano avrebbe un altro colpevole da condannare, si tratta di Giuseppe Loielo. Prima della sentenza, però, precisamente nel 2002, rimane ucciso a Gerocarne in un agguato insieme al fratello Vincenzo.
Nel 2019 il 42enne Giuseppe Taverniti chiede alla Corte d’Appello di Salerno la revisione della sentenza di condanna a 17 anni e sette mesi di carcere per l’omicidio di Domenico Macrì. Due nuove prove potrebbero scagionarlo del tutto dall’accusa di essere l’autore dell’omicidio. Le prove stanno nelle nuove dichiarazioni del fratello di Giuseppe, Vincenzo Taverniti (definito “Il Cinghiale”), collaboratore di giustizia che, a sorpresa, nel corso di alcuni interrogatori, ha rivelato di essere stato lui a colpire il 30 agosto 1997 Macrì, Prestanicola e Fuscà. Una tesi confermata anche da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Loielo, ex esponente della cosca Ariola di Gerocarne. Ma sia i giudici di Salerno che la Cassazione non credono a questa versione dei fatti e negano la revisione del processo.
La ricostruzione e i motivi dell’omicidio ormai sono chiari, grazie anche alle parole di numerosi testimoni. Quel giorno a Gerocarne, Domenico Macrì aveva incontrato Giuseppe Tavernini e con lui aveva avuto un acceso diverbio, sfociato poi in una violenta colluttazione. In quella circostanza Taverniti, rivolgendosi al ragazzo che chiedeva la restituzione dell’auto del padre, aveva detto: «Qui sopra per loro fa freddo». Da lì la decisione di giustiziarlo. Esattamente due giorni dopo, nella piazza affollata e spensierata di Soriano Calabro. (redazione@corrierecal.it)
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