«Mario è un’altra persona. Se avesse deciso di rimanere in Calabria, sarebbe stato sottovalutato, posto che qui da noi l’intelligenza è spesso considerata un peso, un demerito. Allora è andato fuori e ha espresso, dimostrato la sua genialità. Adesso è un pilota di elicottero e passa sopra il Cristo di Rio de Janeiro come se fosse un nuovo aviatore in un immaginario séguito del libro universale “Il piccolo principe”. Da qualche anno, poi, Mario ha sposato una ragazza brasiliana con cui ha comprato una casa bellissima proprio lì, di fronte alla spiaggia di Copacabana». È la sintesi della storia di successo di un giovane calabrese emigrato in Brasile. La espone così Giancarlo Spadafora, che con il fratello Peppe – e la sorella Monica dall’Olanda – porta avanti l’azienda di famiglia, fondata dal genitore Giovambattista, l’orafo delle madonne, delle figure simboliche di Gioacchino da Fiore e delle star del cinema.
Partire e restare sono i due poli della vita umana, secondo l’antropologo e scrittore Vito Teti. «Chi vive in Calabria», per ricordare un emigrato famoso, cioè Rino Gaetano, è costretto a misurarsi con la condizione dell’essere sospeso tra le due mete, soluzioni, prospettive: il viaggio alla ricerca di possibilità e la permanenza, la quale può significare resistenza oppure rassegnazione, inventiva o adattamento, rinuncia, scelta di pura sopravvivenza.
Oggi termina la rubrica Cantiere Calabria, che senza presunzione vuole essere uno strumento pratico e pubblico per continuare a riflettere, a ragionare insieme sul presente e sul futuro di una regione del Sud che continua a spopolarsi malgrado i fondi del Pnrr e quelli ordinari dell’Europa unita; nonostante la banda di connessione ad Internet più o meno ultra larga, il sempre più attrattivo smart working, il sole, il mare, i monti boscati e rigeneranti, i borghi di una volta, le tradizioni del passato remoto e le potenzialità della telemedicina e dell’intelligenza artificiale.
Nelle scorse interviste di “Cantiere Calabria” avevamo focalizzato la discussione su certe abitudini dominanti nella regione, che per risollevarsi dovrebbe archiviare insane pratiche autoreferenziali e rottamare lo scudo alquanto meccanico del vittimismo. Inoltre, ci eravamo concentrati su come valorizzare le risorse regionali di natura e cultura; sull’importanza della pedagogia antimafia e della formazione, anche universitaria, collegata alle specificità del territorio calabrese; sull’esigenza di un rapporto più chiaro e dinamico tra privato e pubblico, tale da alimentare processi virtuosi, lo sviluppo del turismo, dei servizi primari e più in generale dell’economia.
Infine, avevamo raccolto e riassunto qualificate opinioni differenti sull’autonomia differenziata. Alcuni l’avevano definita l’atto finale della spoliazione del Mezzogiorno; altri, invece, l’avevano vista come l’ultimo treno su cui saltare per il riscatto collettivo.
Insieme a Giancarlo Spadafora, cui diamo del “Tu” in ragione della conoscenza personale, ora parliamo – per concludere con uno stimolo a costruire – di un pezzo della storia di suo padre Giovambattista, che da orafo riuscì a farsi apprezzare, solo per citare alcune grandi personalità, da Roberto Benigni, Sofia Loren e i Papi Wojtyla, Ratzinger e Bergoglio. Per inciso, a partire dal prossimo venerdì 22 settembre inizierà sul Corriere della Calabria la rubrica “La lente di Emiliano”, di approfondimento su politica, diritto alla salute, attualità, società, cultura e sport, che dunque assorbirà le due precedenti: “Corriere Suem” e “Cantiere Calabria”.
Giancarlo, che cosa spinse tuo padre a restare in Calabria, a non cercare fortuna altrove, ad investire risorse, tempo e sforzi nel territorio regionale?
«Penso che in questo senso fu determinante il fermento culturale, economico e sociale che ebbe luogo a Lorica tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta. Con la propria famiglia, prima del ’68 papà si era stabilito lì, dove aveva avviato bottega. In quel periodo il Grand Hotel di Lorica ospitava figure di primo piano della politica e dell’imprenditoria italiana. Era dunque necessario disporsi e prepararsi al confronto con loro, sapersi relazionare con tutto un mondo nuovo in movimento: abituato alla qualità, all’organizzazione, al dettaglio. Io credo che lì mio padre avesse trovato l’ambiente ideale per giocare le sue carte. Aveva infatti talento, arte, volontà e desiderio di emergere, crescere, essere gratificato per il proprio valore. Se non ci fosse stato un contesto favorevole come Lorica, forse papà sarebbe partito per l’America. Ai tempi l’economia, il gusto e la sensibilità riscontrabili a San Giovanni in Fiore, dove il babbo aveva iniziato a vendere i gioielli realizzati con le proprie mani, non gli permettevano di ricevere soddisfazioni e di dare sicurezza alla famiglia».
Però poi lui ritornò con tutti voi ad abitare a San Giovanni in Fiore. Lì affrontò sfide difficili: vi aprì la sua gioielleria e dalla seconda metà degli anni Ottanta iniziò a puntare sulle figure simboliche di Gioacchino da Fiore.
«È vero. Stai significando che comunque papà poteva stabilirsi fuori, visto che aveva guadagnato tanto e si era già fatto conoscere molto al di là dell’area silana. Secondo me, ma dovresti anche sentire il parere dei miei fratelli Peppe e Monica, in quella fase della sua vita egli era affascinato dall’idea di proseguire la propria opera proprio a San Giovanni in Fiore, anche per restituire al territorio ciò che ne aveva ricevuto: dalla natura viva della Sila le ispirazioni artistiche; dall’allora poco conosciuto Gioacchino da Fiore la spinta a immaginare e anticipare il futuro, la passione per l’interiorità, la curiosità di conoscere l’anima dei luoghi silani e il desiderio di coglierne i richiami; dalla religiosità popolare l’attitudine a guardare oltre la materia, a rifiutare l’individualismo e a sentirsi parte di una storia e di un disegno collettivi, inclusivi e mai marginali».
Che cosa intendi dire con l’espressione «sentirsi parte di una storia e di un disegno collettivi, inclusivi e mai marginali»?
«Se rammentiamo l’opera teologica e profetica dell’abate Gioacchino, dal territorio dell’odierna San Giovanni in Fiore sarebbe partito il rinnovamento del mondo: il fiore dell’umanità avrebbe generato dalla montagna silana i frutti di un cambiamento molto più vasto, anzitutto interiore, spirituale, epocale. Io credo che mio padre avesse chiaro questo aspetto; sia per le sue capacità, sia perché frequentava amici coltissimi come il professore Salvatore Oliverio, fondatore del Centro internazionale di studi gioachimiti. Anche se papà non si occupava di studi filologici e teologici, ritengo che avesse colto l’essenza della riflessione gioachimita. In tutte le tradizioni mistiche, la comprensione prescinde dall’indottrinamento e dagli elementi legati alla razionalità pura. Anzi, la conoscenza più alta viene da qualcosa di più profondo, se vuoi da un sentire poco descrivibile».
Insomma, secondo te tuo padre si era molto avvicinato al Gioacchino da Fiore che visse, scrisse, costruì e comunicò in Sila?
«Sì, e nel proprio campo papà cercò in tutti i modi di trasmettere questa sua fascinazione per Gioacchino. Infatti, dovette aspettare quasi un ventennio per vedere i primi risultati in merito all’ideazione di suoi gioielli basati sulle figure dell’abate florense, su cui aveva investito un sacco di soldi, che per lungo tempo sembrarono sprecati. Soltanto nei primi anni del Duemila iniziammo ad avere riscontro rispetto alle creazioni legate alla figura del Draco Magnus et Rufus, che all’origine papà aveva realizzato per intero in oro. Devo dire che lui era sicuro del successo e, malgrado le lunghe attese estenuanti, non ebbe mai tentennamenti o ripensamenti al riguardo».
Fu un esempio per tati giovani artigiani e imprenditori?
«Sì. Tu potresti obiettarmi che sono di parte, ma nel risponderti io provo, con tutte le difficoltà del caso, a sganciarmi per quanto possibile dalle dipendenze affettive. Il punto è semplice: se hai un’idea e se ci credi fino in fondo, devi portarla avanti senza perderti. Questo è il messaggio più potente che ha lanciato mio padre, il quale ha lavorato in una terra con tanti problemi irrisolti e molti motivi per emigrare. Papà non ha mai ceduto alla tentazione di tagliare la corda e di farsi gli affari suoi. Al contrario, ha voluto sino alla fine sostenere ogni iniziativa artistica, culturale e sociale della sua terra natia, senza preoccuparsi di ritorni pubblicitari».
Un uomo d’altri tempi.
«Io credo che codesti esempi non abbiano mai scadenza. Sono convinto che non invecchino e che tocchino sempre le corde del cuore di ciascuno; soprattutto in Calabria, in cui abbiamo bisogni di testimonianze, modelli, storie che ci spingano a restare, a costruire per i nostri figli. Permettimi di aggiungere, però, che dobbiamo anche fare la nostra parte. Dobbiamo essere consapevoli, cioè, che gli esempi positivi non sono tutto, benché abbiano un peso ed un effetto innegabili. Essi, infatti, ci aiutano a superare dubbi, ferite, rabbie e delusioni. Tuttavia, poi spetta a noi impegnarci per un futuro migliore, diverso e non per forza da paragonare con l’epoca di chi ha lasciato un segno indelebile. Quando qualcuno mi rammenta che Leonardo Cribari portò la scuola alberghiera a San Giovanni in Fiore, che Riccardo Misasi fu determinante per la nascita dell’Università della Calabria e Giacomo Mancini per l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, io replico con un’ovvietà spesso sottovalutata ma che ti prego di riportare: adesso ci siamo noi e tocca a noi affrontare le sfide cruciali per lasciare alle nuove generazioni una Calabria più ricca sul piano culturale, sociale, economico e civile». (redazione@corrierecal.it)
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