Scriveva Carl Schmitt che, nelle situazioni di emergenza, lo Stato tende a tutelare se stesso a scapito degli individui. Per questo, auspicava che l’assunzione dei pieni poteri da parte del Governo fosse sempre limitata nel tempo sino alla risoluzione della crisi che l’aveva giustificata. In ciò, distingueva la “dittatura commissaria” che, delegata dal popolo, sarebbe cessata al termine del pericolo collettivo, da quella “sovrana”, che, travalicando il mandato popolare, si candidava invece a diventare stabile forma di governo autoritario. Il nostro Legislatore forse conosce poco il pensiero di Schimtt, ma dimostra una particolare predisposizione per il diritto penale emergenziale, tanto che, ormai, ad ogni evento di risonanza sociale, prima ancora che la giurisdizione possa dare la sua risposta in termini di applicazione delle norme vigenti, puntualmente ricorre alla decretazione di urgenza, per “confezionare” una Legge adatta al caso particolare. O meglio, per introdurre una nuova sanzione o inasprirne una esistente, in base non alla gravità dell’offesa arrecata ad un determinato bene giuridico, ma alle reazioni popolari rispetto ad un fatto che è già previsto dalla Legge come reato. Eppure, il diritto penale è governato, tra gli altri, dai principi di frammentarietà e sussidiarietà, che ne delineano la funzione di extrema ratio, sicchè questa “corsa” a strumenti sempre nuovi e diversi di compressione delle libertà individuali appare contraria a pressoché tutti i principi generali dell’ordinamento. Sulle pagine di questo giornale abbiamo più volte denunciato come la logica dello “stato d’assedio” stia consentendo l’introduzione di disposizioni legislative dal sapore liberticida. E mentre aspettiamo, certo, il “decreto Brandizzo” (ed abbiamo già visto il decreto “Willy”, il “Cutro”, il “rave”…) , il Governo approva il “decreto Caivano”, che rappresenta una summa davvero significativa di quello che è, oggi, l’esprit des lois in materia penale. La risposta dello Stato alla delinquenza (e, quindi, al disagio) giovanile è, come sempre, in termini di più massiccio ricorso a strumenti di privazione della libertà personale. Solo soglie minori per l’applicazione di misure cautelari e, soprattutto, misure di prevenzione personali. Disposizione che segna l’ennesimo passo verso la stabile sostituzione del diritto e del processo penale con il diritto ed il processo di prevenzione. Si tratta, a ben vedere, di una contraddizione sistematica tra il fenomeno che si intende reprimere e lo strumento di repressione prescelto. I provvedimenti di prevenzione, infatti, tranne quelle ablativi, sono misure di bando, di esclusione, di emarginazione, conformemente alla loro primitiva natura. Centocinquanta anni fa, servivano a tenere le città “pulite”; ad allontanare oziosi, vagabondi, mendicanti; a ghettizzare il “lumpenproletariat” nelle degradate periferie urbane; a confinare gli oppositori politici, i sediziosi, gli anarchici. Ma come si può pensare, oggi, di risolvere il problema minorile con il daspo urbano o con il foglio di via, cioè isolando e scacciando ragazzi, che sarebbe invece necessario recuperare e reinserire nel tessuto sociale “sano”, prima che costituiscano un problema ancora più radicalizzato? Come si può trattare un adoloscente sbandato (spesso non per sua colpa) come un adulto pluripregiudicato? Si rischia soltanto di rendere definitivo lo scollamento tra devianti e “società civile”, di creare distanze non più colmabili, di costruire una generazione antagonista, come abbiamo visto nelle banlieus parigine, che sarà messa a vivere fuori dal recinto del benessere della borghesia urbana, illusa di essere al sicuro ed invece perennemente assediata, come il forte Bastiani. Si tratta di scelte legislative dannose, rispetto allo scopo dichiarato. Utili solo a placare la sete di giustizialismo (e non di giustizia) delle masse votanti. E’ allora necessario recuperare il senso autentico del diritto penale, tenendo sempre presente la lezione di Bockenforde, secondo il quale “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà”. Quando lo Stato fa ricorso ai mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, rinuncia alla propria liberalità, ricadendo nello stesso totalitarismo da cui aveva tentato di uscire dopo la caduta dei regimi autocratici. Per tale motivo, si dice che ogni privazione della libertà personale è una violazione della nostra Costituzione, che si giustifica solo nel rispetto di quei principi naturali che regolano l’ordinamento.
*Cosimo Palumbo, Past President Camera penale del Piemonte Occidentale “Vittorio Chiusano”
*Fabrizio Costarella, Probiviro Camera penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora”
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