Era l’estate del 1990, l’anno dei mondiali italiani. Le famose notti magiche cantate a squarciagola da Gianna Nannini ed Edoardo Bennato. Che, però, il 3 luglio si erano interrotte bruscamente con la sconfitta della Nazionale di Roby Baggio e Totò Schillaci nella semifinale contro l’Argentina di Diego Armando Maradona. Una delusione immensa, giunta ai calci di rigore di un incontro infinito che il giovane Arturo Caputo, studente di ragioneria, aveva visto davanti alla televisione. E così, la sera successiva a quella partita, insieme agli amici Vincenzo e Giuseppe, il 16enne di Strongoli, piccolo centro della provincia di Crotone, aveva deciso di raggiungere il bar-pizzeria gestito da Rosetta Saraceno per assistere all’altra semifinale, quella che tra Inghilterra e Germania avrebbe deciso la sfidante dell’Argentina per la conquista del titolo mondiale. Da una parte l’esperienza e la potenza dell’interista Lothar Matthäus, dall’altra il talento fresco e sfrontato di Paul Gascoigne. Ad ammirarli, una ventina di persone e tre ragazzi seduti ai tavoli di quel locale situato nella piazza del paese.
La partita è equilibrata, tutti sono con lo sguardo fisso verso la televisione, le pizze arrivano ai tavoli a ritmo incessante, quando all’interno della struttura di Strongoli Marina (un’unica stanza a forma rettangolare) entra un uomo, tra le mani imbraccia un grosso fucile a pompa. Si guarda intorno e poi scatena il panico: i colpi che partono all’impazzata e senza alcun criterio logico, i clienti e i camerieri che provano a fuggire senza sapere dove andare, c’è chi si nasconde dietro al bancone, qualcuno sotto i tavoli. Vincenzo urla ai suoi amici di scappare «o ci ammazzano», mentre la sfida tra i tedeschi e gli inglesi scorre sul televisore posizionato in alto, incurante e distante 1200 chilometri da ciò che sta accadendo sotto i suoi occhi. Il risultato è fermo sull’1 a 1, ma ormai non interessa più a nessuno. L’uomo con il fucile in mano vede che il suo bersaglio è ferito, sta scappando, e allora lo insegue facendosi strada bruscamente tra i tavoli, le sedie, le posate e i piatti caduti a terra. Corre fino alla meta finale, la porta di ingresso del bagno: è lì che guarda negli occhi Salvatore Scalise prima di dargli il colpo di grazia. Poi si dilegua nel nulla aiutato da un complice. Quello che resta all’interno della pizzeria è solo un silenzio inquietante, scalfito dalla voce di Giorgio Martino, il telecronista della Rai, che commenta la partita che si sta giocando allo stadio Delle Alpi di Torino. A terra c’è un uomo completamente avvolto dal sangue, massacrato di colpi. A pochi passi da lui tre ragazzi giovanissimi, sono feriti: si tratta proprio di Vincenzo, Giuseppe e Arturo. Uno dei tre sta morendo, mentre la Germania si appresta a beffare l’Inghilterra ai calci di rigore.
Salvatore Scalise era un piccolo boss in ascesa con precedenti penali, braccio destro del capo cosca Bruno Dima, in quel momento in carcere per scontare una condanna per porto illegale d’armi. Il suo carattere irascibile e presuntuoso da tempo aveva attirato l’attenzione di molti esponenti della criminalità locale, contrariati dalla sua ambizione sfrenata. E così il clan dei Castiglione, nemico dei Dima, aveva deciso di eliminarlo nella maniera più eclatante. In mezzo alla gente, in un luogo pubblico, durante una partita di calcio trasmessa in televisione. Scalise, quella sera, si era accorto immediatamente che gli era stata tesa una trappola e aveva provato a salvarsi la pelle senza però riuscirci. I nove colpi di fucile sparati dal suo killer prima dell’ultimo, non avevano avuto pietà di niente e di nessuno, nemmeno del povero Arturo Caputo, trovatosi casualmente nella traiettoria mortale di quell’esecuzione. Era andata meglio ai suoi amici Vincenzo e Giuseppe, per loro una prognosi di 15 e 35 giorni.
Una condanna a morte quella di Scalise, che, già nei giorni successivi all’agguato, i carabinieri, coordinati dalla Procura della Repubblica di Crotone, inquadreranno nella guerra tra cosche rivali dei Dima e dei Castiglione per il controllo degli affari illeciti nell’area dell’alto Crotonese. Nella notte del 5 luglio verranno fermati alcuni esponenti dei due clan in lotta, per poi essere rilasciati perché a loro carico non emergeranno elementi utili a giustificarne l’arresto. Le testimonianze dei presenti saranno poche, sommarie, timorose, confuse. Ciò che è certo è che il giovane Arturo Caputo non conosceva Scalise ed è rimasto vittima di una storia più grande di lui. Per errore.
Lo scorso 23 marzo a Strongoli è stata inaugurata la “Scalinata della Legalità”, realizzata dall’amministrazione comunale e sulla quale sono stati incisi i nomi delle vittime innocenti delle mafie, tra cui anche quelli di due cittadini di Strongoli, Arturo Caputo e Ferdinando Chiarotti. Qualche anno prima, nel 2017, nel corso di una cerimonia partecipata e commovente, l’Istituto “Lucifero” di Crotone aveva intitolato la biblioteca della scuola al suo alunno vittima innocente della ‘ndrangheta. Erano presenti don Luigi Ciotti di Libera e i genitori di Arturo, mamma Franca e papà Francesco che, insieme all’Istituto, hanno istituito una borsa di studio in memoria del figlio. Un evento, questo, ispirato dal giornalista Bruno Palermo che nel suo libro “Al posto sbagliato-storie di bambini vittime di mafia” (edito da Rubbettino) ha raccontato anche la drammatica storia di Arturo. Una storia lontana nel tempo che non deve essere dimenticata. (redazione@corrierecal.it)
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