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La ricchezza perduta, quando la Calabria era la terra della seta

Per secoli Catanzaro e Cosenza ne sono state tra le capitali europee, ma fino ai primi del ’900 molte famiglie vivevano tra bachi, telai e gelseti

Pubblicato il: 17/09/2023 – 14:00
di Eugenio Furia
La ricchezza perduta, quando la Calabria era la terra della seta

Un contadino chino sui campi con indosso un capo di seta. È l’immagine straniante ma poetica di una Calabria che non esiste più: forse non tutti sanno che c’è stato un tempo in cui la nostra regione era la terra della seta, la cui capitale europea, in particolare, era considerata Catanzaro, tra il Trecento e il Settecento, insieme con Napoli e Firenze.
Ma fino a metà del secolo scorso molte famiglie di contadini o comunque della Calabria più interna vivevano tra bachi, telai e gelseti.
La via della seta partiva da qui. La storia sericola calabrese riporta ai turchi, che intorno all’anno mille portarono quest’arte anche in Sicilia e nell’Amalfitano, sebbene lo storico bizantino Procopio ritenga che i bachi da seta arrivarono in Italia dall’India, sotto Giustiniano.
Alcune fonti riferite al Cinquecento riportano numeri sorprendenti: circa 50mila telai in Calabria – ai tempi in cui la regione aveva una popolazione di 200mila abitanti – e una produzione di oltre 400mila libbre di seta grezza, pari a 130mila chilogrammi ovvero 1.300 quintali; alla fine del Cinquecento i campi di gelso occupavano un terzo della superficie regionale.
Un trend in continua crescita – direbbero gli analisti di oggi – se nel 1610 il valore di 200/250mila chilogrammi di seta esportati ogni anno dal Regno di Napoli – Sicilia esclusa – era pari a 3 milioni di ducati, mentre la sola materia prima ne valeva un milione e mezzo. Due secoli dopo, tra il 1802 e il 1805, la seta prodotta nella sola provincia di Cosenza superava le 200mila libbre. Nel capoluogo bruzio in età angioina si svolgeva la Fiera della Maddalena, una delle più importanti del regno: la seta occupava la gran parte dei banchi.

L’export in Francia

Cosa rimane oggi di quella ricchezza? Due lodevoli iniziative come i musei della Seta a San Floro (CZ), a cinque chilometri dal parco archeologico di Scolacium, e Mendicino (CS), riaperto nel 2015 dopo il restauro nell’antica filanda Eugenio Gaudio, ma anche la toponomastica restituisce lo sfarzo di veri e propri distretti di archeologia industriale: è il caso di piazza dei Fòllari o dei Cuculli, vale a dire i bachi da seta, dove le fonti collocano le antiche filande degli ebrei, maestri nella tintura oltre che filatura e tessitura.
I lavorati cosentini partivano dal porto di Amantea – infrastruttura strategica anche per il commercio delle sardine salate verso la Sicilia, da cui i vascelli tornavano carichi di salgemma – e spesso erano diretti in Francia, dove erano molto richiesti e apprezzati. Le famiglie genovesi presenti nella Calabria Citra (Cybo, Cicala, Ravaschieri, Adorno, Diacono…) monopolizzavano il commercio dei filati e tessuti di seta accanto a quello dell’olio di oliva. Si racconta di un Jean le Calabrais, Giovanni il Calabrese, che a inizio Settecento fondò a Lione un’industria per la lavorazione della seta: a lui è attribuita la paternità di un telaio a lecci azionato da un solo tessitore, un pezzo custodito nel museo delle arti e dei mestieri di Parigi.

Il “derby della seta” e un coworking ante-litteram

Come spesso accade, a beneficiare di tanta ricchezza erano soprattutto gli amministratori dei feudi che grazie al commercio accumulavano quanti più terreni possibile mentre chi non possedeva neanche un fazzoletto di terra per la gelsicoltura curava gli allevamenti altrui e percepiva un terzo del frutto (una specie di coworking ante-litteram); di questa pratica, nel Cosentino rimane ancora oggi un detto: fare «u sìricu a tìarzu» (dal greco serikòs, in latino sericum), formula che nel lessico popolare indica due persone che si frequentano in continuazione – la cura del gelso era evidentemente impegnativa e richiedeva tempi lunghissimi.
La filiera prevedeva ampie colture di gelso rigorosamente bianco, del cui “pàmpino” il baco si nutriva: «La Calabria, grazie alle sue condizioni climatiche – scrive Luigia Angela Iuliano in “Lungo il filo di Aracne” (Regione Calabria e Arssa, 2010) –  incrementò la coltivazione del gelso e, all’inizio del 1400, molti centri potevano vantare una tradizione ormai consolidata. (…) A Cosenza venne concessa nel 1464 la franchigia sulle esportazioni di seta, anche se le fu negata la costituzione del Consolato dell’arte. La temporanea imposizione del 1465, che vietava di manifatturare seta nel Reame, lasciò escluse solo Napoli e Catanzaro, dove questa produzione aveva assunto grande sviluppo»; nel centro calabrese, in particolare, alcune fonti storiche (V. D’Amato, “Memorie istoriche dell’illustrissima e fedelissima città di Catanzaro”, 1670) attestano l’introduzione dell’arte della seta nel 1072, dopodiché si diffuse nel resto d’Italia e «al tempo degli Svevi e degli Angioini i tessuti di Catanzaro, e principalmente i velluti e i damaschi, erano già famosi».
Si può dunque parlare a ragione di una tradizione, con annesso fiorente settore economico, lunga mille anni. Iuliano per ribadire il primato internazionale dell’attuale capoluogo di Regione ricorda che nel 1470 la corporazione della seta di Catanzaro inviò i suoi maestri a Tours per dare lezioni ai francesi, mentre «nel 1519 Carlo V concesse alla città i capitoli definitivi dell’arte, istituendovi il Consolato e facendone la seconda città italiana, dopo Firenze, a possedere statuti che regolavano quest’attività artigianale, che impegnava 7000 persone».
Negli anni si consolidarono altre manifatture, soprattutto nella Calabria Citra, l’attuale provincia di Cosenza: Paola, Castrovillari, Fiumefreddo, Belvedere, Amantea, Rogliano e Acri ma anche Monteleone, attuale Vibo, capoluogo della Calabria Ultra, che – annota J. H. Bartles in “Lettere sulla Calabria” – con Catanzaro fissava il prezzo della seta per tutto il paese per l’anno in corso e non pagava imposte per la produzione locale né tasse doganali per la spedizione a Napoli.
A Reggio Calabria viene attribuito nel culmine della produzione un export di 80/100mila libbre e d’altra parte nel 1780 a Villa San Giovanni aprì una scuola-opificio voluta dai Grimaldi e dai Caracciolo, quattro anni dopo toccò alla città dello Stretto dove nacque la seconda scuola filanda della Calabria.
Nell’Ottocento – riporta ancora “Lungo il filo di Aracne” – si segnalano nuove filande in tutto il Cosentino, la filatura a vapore dei Marincola a Catanzaro e la manifattura dei baroni Bevilacqua a Curinga.
I viaggiatori del Grand Tour di Sette e Ottocento rimangono affascinati da tanta opulenza. La ricchezza di Villa San Giovanni e del territorio circostante (oltre 100 lavoratori per ciascuna delle 92 filande nel 1844 divenute 120 nel 1863) fu cancellata solo dal terremoto del 1908.

Le povere maestranze vessate dai baroni

Affermando che «Cosenza è, per il commercio della seta, una delle prime città del Regno (di Napoli, ndr)», lo stesso Bartles riporta «un’espressione particolare di cui ci si serve a Napoli. Ogni qual volta ho parlato coi napoletani del commercio calabrese, essi dicevano: “I generi e i prodotti di cui abbondano le Calabrie e di cui fanno uso i napoletani”, come se i calabresi producessero in abbondanza i loro prodotti non per il loro piacere ma perché se ne potessero servire i napoletani. Sembra dunque che per i napoletani sia scontato che la Calabria sia la loro mucca da mungere».
Ben prima, nel 1636, Tommaso Campanella scriveva: «Povera gente! Uno che segue, faticando un’intera giornata, la trattura dei bozzoli di una libra di seta, preparandosi a venderla per quindici carlini, deve versarne undici al fisco mentre la consegna al setificio, la vende, la pesa. Cosa incredibile»: nel 1605 il prelievo di un carlino e mezzo a libbra era stato portato a due.
Proprio la fiscalità eccessiva (già nel 1628 da Cosenza si richiedeva di abolire la gabella sulla seta imposta dal governo napoletano ma riscossa dai baroni proprietari terrieri e lo storico Girolamo Marafioti denunciò che «tutti potrebbero vestire sontuosamente di seta, perché ogn’uno per povero ch’egli sia, fa in ogni anno nella propria casa tanta seta, che potrebbe comodamente vestire») ma anche le condizioni climatiche – lo scirocco poteva essere deleterio – e le ricorrenti infezioni del baco, unite ai primi fenomeni migratori e all’incapacità di costruire un’industria tessile competitiva con quelle estere decretarono il lento declino della sericoltura calabrese, tenuta in vita negli ultimi sprazzi dalle donne di famiglia.
E così, oggi, quel telaio musealizzato è un pezzo di storia ma soprattutto il segno di una sfida persa, una delle tante. (redazione@corrierecal.it)

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