ROMA Condannato a 20 anni in rito abbreviato Antonio Carzo, il boss ritenuto insieme con Vincenzo Alvaro a capo della prima “locale” di ‘ndrangheta nella Capitale smantellata con la maxi inchiesta “Propaggine” della Direzione Distrettuale Antimafia di Roma. Il gup del tribunale capitolino questa mattina ha inflitto 17 condanne tra le quali anche quelle a 16 anni e 6 mesi per Domenico e a 12 anni e 2 mesi per Vincenzo Carzo, entrambi figli di Antonio, e ha pronunciato due sentenze di assoluzione. Il 12 settembre intanto si è aperto davanti all’ottava sezione penale del Tribunale di Roma il processo ordinario per gli altri imputati, tra cui l’altro boss dell’organizzazione, Vincenzo Alvaro. Nell’inchiesta, coordinata dai procuratori aggiunti Michele Prestipino e Ilaria Calò con i pm Giovanni Musarò, Francesco Minisci e Stefano Luciani, vengono contestate, a vario titolo, le accuse di associazione mafiosa, cessione e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata e detenzione illegale di arma da fuoco, fittizia intestazione di beni, truffa ai danni dello Stato aggravata dalla finalità di agevolare la ‘ndrangheta, riciclaggio aggravato, favoreggiamento aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa.
Carzo e Alvaro, appartenenti a storiche famiglie di ‘ndrangheta originarie di Cosoleto, centro in provincia di Reggio Calabria, erano al vertice della “locale” che operava a Roma dal 2015 dopo avere ottenuto l’investitura ufficiale dalla casa madre in Calabria. «Noi a Roma siamo una propaggine di là sotto», dicevano in un’intercettazione gli indagati. E nelle conversazioni riportate nell’ordinanza del gip alcuni degli indagati facevano riferimento proprio al lavoro di alcuni magistrati e poliziotti che avevano lavorato prima in Calabria e poi a Roma: «C’è una Procura… qua a Roma… era tutta… la squadra che era sotto la Calabria. Pignatone, Cortese, Prestipino»…«e questi erano quelli che combattevano dentro i paesi nostri… Cosoleto… Sinopoli… tutta la famiglia nostra… maledetti». A Carzo viene contestato il ruolo di promotore, avendo ricevuto dall’organo collegiale di vertice “la Provincia” l’autorizzazione alla costituzione della locale di Roma, e quello di direzione insieme a Vincenzo Alvaro.
In particolare Alvaro, secondo gli inquirenti, era capo di una “costola” del sodalizio composta, tra gli altri, da cognati, nipoti, e altri soggetti, così come Antonio Carzo che ne capeggiava un’altra insieme a due figli.
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