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Il sequestro di Carlo Celadon: «Due anni incatenato nelle grotte dell’Aspromonte»

Il 54enne vicentino rapito dalla ‘ndrangheta nel 1988 al Corriere della Sera: «Il film sulla mia storia? Spero serva a far riflettere i giovani»

Pubblicato il: 27/09/2023 – 14:10
Il sequestro di Carlo Celadon: «Due anni incatenato nelle grotte dell’Aspromonte»

COSENZA Carlo Celadon nel 1988 aveva 18 anni. Figlio di un industriale vicentino, venne rapito il 25gennaio dalla ‘ndrangheta che lo nascose in Aspromonte per due anni, precisamente 831 giorni, dal 25 gennaio del 1988 al 4 maggio 1990. Oggi Celadon è un imprenditore nel settore finanziario di 54 anni che da Arzignano, paese di origine in cui fu rapito, si è trasferito a Vicenza. È sposato e ha due figli. La storia del suo sequestro, il più lungo della storia italiana, è diventata un film “800 giorni” diretto dal regista Dennis Dellai, proiettato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia e premiato con il Leone di vetro. «In passato – racconta oggi l’uomo in un’intervista rilasciata all’edizione veneta del Corriere della Sera – diversi registi mi hanno proposto di girare fiction o documentari sul mio sequestro ma ho sempre detto di no. Non volevo spettacolarizzare ciò che ho vissuto, o che qualcuno trasformasse quegli anni – che per me sono morti e sepolti – in un prodotto commerciale». Dellai, però, sembra essere riuscito a toccare le corde giuste per convincerlo. «Mi ha promesso che non sarebbe stata una trasposizione fedele – ammette – ma che la mia storia serviva da spunto per spingere le persone a fare i conti con una delle pagine più buie della storia italiana. Ho visto il film in anteprima, e il regista ha rispettato il nostro patto. Ora spero che, andando al cinema, i giovani possano riflettere su un fenomeno, quello dei sequestri di persona, che sembra lontano ma che in realtà, fino a meno di trent’anni fa, ha sconvolto le vite di tanti ragazzi». Ma cosa resta, a distanza di 35 anni, di quella drammatica esperienza?  «Due anni richiuso nelle grotte dell’Aspromonte – rivela Celadon al giornalista Andrea Priante – negli ovili o dentro spazi angusti, incatenato, bendato, col divieto di urlare, con l’impossibilità perfino di alzarmi in piedi, mi hanno insegnato a dominare le mie emozioni, a soffocare la rabbia. Oggi sono un uomo che insegue la tranquillità, un mediatore che cerca di evitare lo scontro. Se c’è un litigio, io sono colui che fa da paciere». Il 54enne ammette che «quello del sequestrato è un marchio che ti resta addosso, come per i deportati nei campi di concentramento. Ogni tanto c’è qualcuno che rispolvera la vicenda, magari mi riconoscono e mi fermano per la strada, ma non mi infastidisce. Reagisco con distacco. È come se quel ragazzino non fossi io: riguardo le foto scattate dopo la liberazione, quando pesavo 45 chili – ora ne peso 90 – e non mi riconosco». Ma raramente pensa a quei giorni. «Ogni tanto – afferma – ho qualche flash. Ricordo alcuni dei nascondigli. Uno era un cunicolo che si infilava tra le rocce dell’Aspromonte, talmente basso che dovevo rimanere sdraiato con il cappuccio in testa e le catene al collo e alle caviglie. In quegli anni si sono alternati almeno venti carcerieri, ma pochi sono stati identificati e arrestati. Alcuni degli altri, ho saputo poi, sono stati ammazzati per questioni di denaro. Erano dei pecorai, gente ignorante e senza scrupoli. Ma dietro a loro, c’erano sicuramente dei mandanti». Celadon dichiara oggi di provare indifferenza verso i suoi rapitori, anche se prova piacere nel sapere che la Cassazione lo scorso anno ha negato i permessi premio al telefonista della banda. «Quando parlava con i miei familiari – sottolinea – era particolarmente sadico. La Giustizia deve fare il suo corso, fino in fondo». Suo padre, a differenza di quanto gli veniva detto dai suoi carcerieri, non si rifiutava affatto di pagare il riscatto, «andò perfino a parlare con Craxi e De Mita. Ma loro mi inculcavano che, se ero prigioniero, la colpa era sua. Credo fosse una strategia per indurmi la sindrome di Stoccolma, così che parteggiassi per loro. Ero arrivato a odiare mio padre. Anche dopo la liberazione, quando ho capito che in realtà aveva pagato, non riuscivo a superare il rancore. Solo due giorni dopo sono andato da lui, l’ho abbracciato, e ho pianto». La vicenda è raccontata nel film attraverso gli occhi della sua fidanzata dell’epoca, Gabriella, morta dieci anni fa. «Una persona speciale – ricorda Celadon – alla quale penso spesso. A lei scrivevo le mie lettere dalla prigione, le dicevo che sarei tornato per sposarla. In realtà, una volta a casa, scoprimmo che quell’esperienza ci aveva cambiati in modo diverso e ci lasciammo. Ma siamo sempre rimasti molto legati». (redazione@corrierecal.it)

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