Ci si potrebbe chiedere se, prestigio e storia a parte, sia la Sampdoria (o il suo tecnico Andrea Pirlo) a non essere chissà che cosa. Nell’attesa di conoscere la risposta definitiva, non si può non elogiare questo Catanzaro che anche a “Marassi”, di fronte a un pubblico abituato da sempre alla serie A, ha dettato legge come – Parma escluso – fa da circa un anno a questa parte. A stropicciarsi gli occhi durante e alla fine del confronto tra gli ipotetici Davide e Golia, sono stati gli oltre 2.500 sostenitori giallorossi, proiettati sempre più verso le zone nobili della cadetteria. Ancora una volta sono i numeri del team di Vivarini a impressionare, con un possesso palla sempre superiore, anche nel secondo tempo quando i blucerchiati hanno cercato disperatamente il pari.
Crema: Jari Vandeputte ed Enrico Brignola (quest’ultimo nella foto di copertina) sono stati i protagonisti assoluti dell’exploit in terra genovese. Due calciatori offensivi che a Catanzaro hanno trovato la pace dei sensi. Il belga non è più una novità: un anno fa ha concluso il torneo di C con all’attivo 11 gol e più di 20 assist, mentre quest’anno l’ha buttata dentro già tre volte. Il “furetto” di Caserta era considerato uno dei talenti più luminosi del calcio italiano (il Sassuolo lo acquistò per 3 milioni e mezzo dal Benevento). Poi il crollo improvviso, l’approdo non pervenuto a Cosenza e infine la scommessa Catanzaro. Il suo gol di ieri vale i tre punti e forse una nuova rinascita personale. Il tempo per provarci (24 anni appena) c’è tutto.
Amarezza: questa settimana il Catanzaro non ha nulla di amaro. A differenza di Andrea Pirlo, che in Calabria, con la maglia della Reggina, fece decollare la sua carriera straordinaria. Però da calciatore e non da allenatore, dove, invece, ha fatto male dappertutto, un po’ per mancanza di esperienza, un po’ per sfortuna e forse un po’ – chissà – perché quando esprime i suoi concetti viene quasi da dormire.
Da “zona Guarascio” a “zona Mazzocchi” è un attimo, anche se il patron silano in fatto di miracoli calcistici a tempo scaduto, non sembra ancora avere rivali. E sì, perché, nel successo del Cosenza in quel di Pisa arrivato al 98′, non può che esserci il suo zampino. Una vittoria sofferta, insperata, meritata, infartuata e bestemmiata oltremisura dal popolo rossoblù che pare ormai avere inserito un cuore artificiale al posto del suo organo vitale. Tre punti che esaltano i pregi e non cancellano i difetti di una squadra talentuosa e schizofrenica, offensiva e fragile quando c’è da tenere botta persino di fronte a un avversario in inferiorità numerica. Una squadra da improvvisa pennichella pomeridiana in tempi di gioco e da risvegli in tempi di doccia e tè caldo. Una squadra da 90′ inoltrato, come la paura di perdere l’ennesimo treno della vita o di una partita che andava chiusa molto prima e invece è stata l’ennesima irrinunciabile sofferenza.
Crema: Simone Mazzocchi (nella foto di copertina), l’eroe dell’Arena Garibaldi, non ha una squadra del cuore e sogna da sempre di fare un gol in rovesciata uguale a quello realizzato da Cristiano Ronaldo alla Juventus in Champions League (anche se una cosa simile l’ha fatta un paio di anni fa a Reggio Calabria con la maglia della Ternana). Ha 25 anni, appartiene alla categoria dei “figli di Zingonia“ per essere cresciuto nel settore giovanile dell’Atalanta, club che sforna talenti come il pane e che lo ha trasformato da terzino destro ad attaccante giramondo: negli ultimi sei anni è finito in prestito al Siracusa, al Sudtirol, alla Reggiana, alla Ternana, di nuovo al Sudtirol e al Cosenza, realtà, quest’ultima, in cui sta usando tanta testa per giocare e per segnare, soprattutto a tempo scaduto (il 2 a 2 col Sassuolo al 90′, il 2 a 2 col Sudtirol al 99′ e l’1 a 2 di Pisa al 98′). Nell’anno in cui i Lupi hanno deciso di mettersi in organico gli attaccanti di grido che si attendevano da secoli, lui, Simone Mazzocchi da Milano, quello meno atteso e pubblicizzato, si è preso la scena con merito e umiltà.
Amarezza: dopo una vittoria in trasferta, parlare di ciò che nel Cosenza non convince sfiora il peccato mortale. Però questa rubrica ha anche l’amarezza da trattare, quindi qualcosa bisogna tirare fuori. Mai come quest’anno tifosi e giornalisti bruzi si sono detti soddisfatti del gioco espresso dai ragazzi di Caserta anche dopo le sconfitte. Resta però il fatto che non si può ogni volta rischiare di buttare al vento punti meritati. Le partite contro Modena, Cremonese e Pisa, oltre a quelle mentali, hanno ribadito le fragilità difensive dell’organico, da cinque stelle dalla trequarti in su e da appena un paio alle spalle del centrocampo. In genere anche gli allenatori più anarchici e allergici alla retorica, dicono che la prima difesa è l’attacco. Vero, se tutta la squadra, a partire dai giocatori più offensivi, si muove a dovere e si sacrifica, i rischi di prendere gol diminuiscono. Poi, però, c’è da fare i conti con tanto altro, come ad esempio gli errori individuali che questo Cosenza sta mettendo in mostra in quasi ogni partita. Se a momenti viene da rimpiangere Rigione e Vaisanen, qualche esame di coscienza bisogna farselo.
Nonostante la spinta dei tifosi presenti in massa (oltre 4.500) per la prima stagionale al “Granillo”, la Reggina, anzi, Lfa Reggio Calabria, è uscita sconfitta 2 a 1 dalla sfida contro il Siracusa. La partita, com’era prevedibile, ha messo in luce tutti i limiti dei ragazzi di Trocini, partiti in netto ritardo rispetto alle avversarie.
Crema: a 35 anni, dopo una vita passata a correre come un dannato sui campi di A e B, Antonino Barillà ha deciso di chiudere la sua carriera nell’inferno della D. Una scelta di cuore, con addosso la maglia della sua Reggina, anche se oggi porta un nome incomprensibile. Il primo gol di questa nuova e imprevedibile avventura non poteva che essere suo. Ed è un gol triste e malinconico.
Amarezza: al di là della sconfitta di ieri, la sensazione che si ha da tempo e che difficilmente gli amaranto quest’anno potranno centrare la promozione. Il rischio concreto e che possa disperdersi in fretta il sostegno, finora generoso, dei tifosi, già poco propensi a dare fiducia alla nuova proprietà.
Dopo qualche settimana torno ad occuparmi di Domenico Berardi, il calciatore italiano (numeri alla mano) più forte e sottovalutato degli ultimi dieci anni. Di recente ha mandato al tappeto due squadrette di non poco conto come Juventus e Inter. Lo ha fatto mettendola dentro in modo sublime, sprigionando tutto il talento che, chissà perché, non gli è mai stato riconosciuto fino in fondo.
La maggior parte dei giornalisti di grido e dei tifosi invasati delle big del campionato, lo ha spesso deriso, snobbato, preferendogli nelle prime pagine dei giornali e nei sogni di mezza estate chiunque gli passasse davanti: da Insigne a Bernardeschi, da Raspadori a Zaniolo, da Chiesa a Gnonto, e se Pepe tornasse a giocare, probabilmente avrebbe più risalto mediatico dell’asso calabrese che, evidentemente, sconta la scelta di non essersi mai messo alla prova in una big.
Crema: quest’estate Berardi voleva finalmente spiccare il volo per approdare alla Juventus, ma alla fine il Sassuolo lo ha barricato in casa e non se n’è fatto niente. Lui, seppure scontento, ha continuato a regalare magie in maglia neroverde. C’è chi chiama tutto questo favola di provincia.
Amarezza: il buon Domenico ha quasi 30 anni, in Italia non ha rivali e gioca ancora nel Sassuolo che al massimo può ambire all’ottavo posto in classifica. Più che favola, la sua storia sembra una commedia all’italiana anni ’60, in cui comico e drammatico si mescolano sapientemente per raggiungere un finale che più amaro non si può.
Come per Pirlo, la carriera di allenatore di Gennaro Gattuso non è stata fin qui fortunata. Eppure, dei tanti azzurri campioni del mondo nel 2006 passati dal campo alla panchina, lui sembra essere l’unico ad avere carisma e idee. A cui bisogna aggiungere un’umanità simile a quella dei grandi del passato come Bearzot, Maestrelli, Mondonico, Zoff e Giorgi per citarne alcuni. Un’umanità che traspare già dal suo volto, difficile da ritrovare dei miti moderni. Da pochi giorni “Ringhio” è diventato tecnico del Marsiglia, passando simbolicamente da un sud marittimo italiano (Corigliano) a uno francese.
Crema: Raymond Domenech, ex ct della Francia sconfitta in finale dall’Italia di Gattuso ai mondiali del 2006, dell’ex mediano del Milan ha detto: «Chissà se i marsigliesi apprezzeranno l’idea di dover rilanciare un allenatore che finora non è riuscito ad affermarsi». Il neo allenatore del Marsiglia non ha replicato (lo aveva già fatto nel 2007: «Mi fa girare i coglioni, quel Domenech parla sempre…»). «Il Gattuso allenatore – ha preferito dire di sé stesso – è molto diverso da quello giocatore, che forse oggi non farei giocare in una mia squadra. So che la piazza è calda, ma non mi fa paura, conta il lavoro».
Amarezza: Raymond Domenech da allenatore ha vinto soltanto un campionato di seconda divisione francese e non ha mai mostrato grande simpatia per il popolo italiano. Pochi giorni fa l’ex portiere francese di Parma, Inter Fiorentina e Genoa Sebastien Frey ha detto di lui questa cosa qui: «Mi ha allontanato dalla squadra francese perché odiava gli italiani e io giocavo in Italia. Mi ha detto in faccia che non voleva convocarmi perché giocavo in Italia».
Il dolore immenso per la morte di Silvio Berlusconi della calabrese – di Melito Porto Salvo – Marta Fascina (sua ultima compagna di vita e quasi moglie) ha trovato negli ultimi giorni il sostegno del fratello del cavaliere, il quasi cognato Paolo. «Basta con le lacrime – ha detto –. Questo è un discorso che faccio anche a Marta, che è inconsolabile ma dovrà avere la forza anche lei di ritornare in Parlamento, perché è suo diritto e soprattutto suo dovere». Parole, queste, espresse durante un evento della campagna elettorale di Adriano Galliani, amministratore delegato del Monza calcio e candidato per le elezioni suppletive al collegio del Senato di Monza e della Brianza. Marta Fascina, per chi non lo sapesse, prima di diventare un esponente politico di Forza Italia e sposa simbolica di Silvio Berlusconi, è stata una giornalista e “press officer and public relation specialist” per la società di calcio Ac Milan, che poi è anche la sua squadra del cuore.
Crema: All’appello, duro ma sensibile, di Paolo Berlusconi, si è aggiunto quello, empatico e (dis)interessato, del ministro degli Esteri (nonché segretario di Forza Italia) Antonio Tajani, impegnato con le unghie e con i denti a tenere in piedi un partito che senza il suo leader sembra destinato a una lenta estinzione: «Se la famiglia Berlusconi vorrà dare un contributo saremo molto lieti di riceverlo, Marta? Sarà lei a decidere se venire, la aspettiamo a braccia aperte».
Amarezza: Dalla morte di Berlusconi in avanti, Marta Fascina si è barricata nella villa di Arcore e si è vista in pubblico una sola volta, il 9 agosto scorso, sugli spalti dell’U Power Stadium durante il primo Trofeo Silvio Berlusconi che ha opposto le squadre di Milan e Monza.
In tribuna, accanto a lei, un seggiolino vuoto con le maglie ricordo (appunto di Milan e Monza) dedicate all’ex presidente del Consiglio. Ma, al di là dell’evento luttuoso che l’ha colpita direttamente, più volte la deputata calabrese ha dimostrato di non amare granché le luci dei riflettori. Ne sanno qualcosa in Sicilia, regione in cui è stata eletta in Parlamento – nel collegio uninominale di Marsala – senza averci mai messo piede. (redazione@corrierecal.it)
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