COSENZA Non solo Cirò, non solo amari. La Calabria è pronta a dire la sua anche con le bollicine: materia prima e conformazione dei territori lo consentono, tra versatili vitigni autoctoni e alture adeguate che risentono anche delle brezze marine. Una degustazione cosentina con 24 della trentina di bollicine calabresi “censite” dalla Fisar (Federazione Italiana Sommelier Albergatori e Ristoratori) dimostra che – anche stavolta – si tratta solo di comunicare meglio una nicchia in continua crescita qualitativa oltre che quantitativa. E avere più consapevolezza, sia tra i consumatori che tra i ristoratori cui è chiesto di affrancarsi dal provincialismo di carte ancora alquanto esterofile, un po’ come accadeva vent’anni fa con i vini fermi.
Ma restiamo nel flûte. In principio fu Librandi, in campo da oltre quindici anni con Rosaneti e Almaneti a conferma della visionarietà del compianto Nicodemo: in oltre tre lustri lo scenario dei vini spumanti calabresi si è evoluto.
Suggestioni confermate durante la presentazione dell’opera collettiva “Sciampagna – Lo spumante classico italiano” (a cura di Giampaolo Zuliani, Marcianum Press 2023), evento organizzato dalla Fisar all’Enoteca regionale di Cosenza. Giuseppe Palmieri, presidente di Fisar Cosenza, scherzando ma neanche poi troppo sollecita due dei quindici autori presenti – Paolo Peira ed Enrico Zamboni, moderati da Cristina Raffaele – ad aggiungere quanto prima anche un capitolo calabrese alla pubblicazione concepita in pandemia come e-book e poi cresciuta fino a diventare una piccola bibbia del settore in 250 pagine tra storia, storie di produttori, numeri e curiosità.
Se non (almeno per ora) dalle pagine del libro, ieri la Calabria ha parlato dai banchi di degustazione: le cento schede di valutazione compilate dai partecipanti (su circa 140 calici consegnati) sono un primo osservatorio, sebbene l’impressione sia che possa aver prevalso il brand e non la qualità.
Comunque sia, alla fine il primo posto va ex aequo a Ippolito 1845 (presente con il brut “RivaDiva”, metodo Martinotti o Charmat 70% Greco bianco 30% Pecorello) e Cantine Benvenuto (“Mishalai”, bianco brut blend di Zibibbo e Malvasia metodo Martinotti).
Scelta che lascia vacante il secondo gradino del podio, mentre al terzo si piazzano ex aequo Tenute Pacelli (“Zoe” bianco brut o dosaggio zero bio, metodo classico 100% Riesling renano, e “Zoe” rosato brut bio, metodo classico 80% Riesling renano 20% Magliocco), Santa Venere (“SP1”, bianco o rosato brut metodo classico Gaglioppo 100%), Verbicaro viti e vini (“Acres” bianco metodo Martinotti melange di uve bianche selezionate) e i reggini Barone Macrì (“Centocamere” bianco brut 2019 Mantonico in purezza e rosé brut 2020 Nerello mascalese in purezza, entrambi metodo classico) e Tramontana (“Tramontana 1890 spumante brut” metodo Martinotti e blend di uve bianche).
Ferrocinto era presente con “Clavè” (Greco bianco brut metodo Martinotti) e “Dovì” (metodo classico brut Chardonnay in purezza), le altre aziende erano Librandi (“Rosaneti” rosato brut metodo classico Gaglioppo 100%), Tenuta Iuzzolini (“Don Fortunato” bianco brut metodo Martinotti da uve coltivate in Calabria), Cantine De Mare (“De Mare extra dry” metodo Martinotti 80% Chardonnay 20% Malvasia), Senatore (“Eukè bio” cuvée bianco extra dry e cuvée rosé brut, rispettivamente Greco bianco-Chardonnay e 100% Gaglioppo, entrambi metodo Martinotti), Termine Grosso (“Bollicine extra dry rosato” metodo Martinotti 100% Gaglioppo), Cantine Enotria (“Primofiore” bianco brut metodo Martinotti 100% Pecorello), Cantina Masicei (“Dorè” bianco dosaggio zero metodo classico 100% Zibibbo e “Mirum” rosato dosaggio zero metodo classico con uve Zibibbo e Magliocco canino), Origine&Identità di Mario Romano (bianco dosaggio zero metodo classico 100% Zibibbo di Pizzo), Spadafora 1915 (“Madreperla” rosato extra dry metodo Martinotti con blend di vitigni autoctoni) e Cantina Viglianti (rosé millesimato metodo classico dosaggio zero).
Oltre ai presenti, la Fisar aveva coinvolto Russo&Longo e IGreco (non hanno aderito), mentre Statti e Baroni Capoano avevano terminato il prodotto.
Prima della degustazione, Paolo Peira ha incuriosito i presenti con un gustoso excursus sul tema: si inizia con un tributo ai monaci «che avevano molto tempo oltre a una vasta cultura agraria», utile in un sistema autarchico “a filiera corta ed economia chiusa”, diremmo oggi, che nei secoli diede vita anche alla produzione brassicola o a veri e propri monumenti come lo Chartreuse. Ma senza divagare troppo è giusto il caso di ricordare Dom (Pierre) Pérignon e il suo grande naso, non nel senso di Cyrano de Bergerac ma di preparazione e versatilità olfattiva. Ancora oggi il naso dell’uomo è irriproducibile, altro che intelligenza artificiale.
Peira affascina l’uditorio tra «gemme di liberazione dell’anidride carbonica» e consigli su come lavare i bicchieri (a mano e con l’acqua calda) e asciugarli (mai capovolti!). A proposito: la forma del bicchiere si sta sempre più allontanando dal flûte, l’importanza è tutta nella base: a cuspide, non una curva dolce.
A Enrico Zamboni invece l’onore e l’onere di tributare il giusto omaggio al Ferrari (il maschile non è un refuso) delle bollicine italiane: Marcello Lunelli ha raccontato nel libro Giulio Ferrari (1879-1965), teorico ante litteram del “less is more” applicato alla viticoltura, ovvero meno resa per maggiore qualità. Dopo la formazione nella regione francese della Champagne (il femminile non è un refuso), nel 1902 Giulio Ferrari fondò le sue cantine a Trento e nel 1906 ottenne il primo premio. Il lucky strike, l’evento fortunato di Ferrari fu il lungo affinamento del suo prodotto nato facendo di necessità (cantina murata nel 1939 allo scoppio della seconda guerra mondiale) virtù (cantina riaperta nel 1945 e veri e propri tesori in bottiglia ritrovati intatti all’interno). Ferrari resta oggi l’unica cantina con spumanti affinati anche 15/20 anni, bottiglie non facili per le quali non è fuori luogo un parallelismo con la passione per le auto d’epoca: vanno apprezzate anche se non hanno idroguida e aria condizionata.
C’è stato un tempo in cui il tappo a fungo si vedeva solo a Natale o per benedire matrimoni, compleanni, cresime e comunioni: il mercato registrava picchi tra fine ottobre e gennaio mentre adesso è meno altalenante. Resta nondimeno la scarsa consapevolezza per cui tutto è genericamente “prosecco”, sia un Trentodoc o una Franciacorta… o una bollicina calabrese, appunto.
Intanto, attorno a quelle che genericamente definiamo “bollicine” sono fioriti luoghi comuni più o meno attendibili: se è vero che il vino spumante sgrassa il palato coi fritti, non è altrettanto vero che col dolce si può optare anche per il brut; un’altra disputa riguarda il tappo da non far saltare in aria – poi, certo, nel segreto della tavola fate come volete – come nel dipinto 700esco, appena pre-rivoluzione, di Jean-Francois De Troy “Pranzo a base di ostriche”, il primo quadro in cui compaia una bottiglia di champagne.
E oggi? Nella massificazione che è anche democratizzazione dei consumi, il primo indicatore di qualità per una bottiglia resta il prezzo (quasi sempre due fattori direttamente proporzionali), così come controllare la retro-etichetta resta d’obbligo: tanto più lo sarà dall’8 dicembre prossimo, con l’obbligo di tabelle nutrizionali e indicazione delle calorie per esteso tramite QR code.
Altro imperativo d’obbligo resta bere responsabilmente, dopodiché non rimane che immergere naso e palato nel flûte che restituirà cedri, limoni e schiuma marina: tutti elementi che trovate – in alcuni casi esclusivamente – nella Calabria della biodiversità.
Ostriche e champagne? Ecco un altro luogo comune da rifuggire dal momento che raddoppiereste la sapidità, in un effetto “sale su sale” con conseguente sensazione ferrosa e amaricante: meglio un bel Moscato d’Asti. Anzi di Saracena!
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