Dalla Calabria (origini tra Maierato e Cosenza) a New York, passando per Roma. Laura Caparrotti, regista, ha fondato nella Grande Mela una compagnia, la Kairos Italy Theater, specializzata in cultura italiana, e “In Scena! Italian Theater Festival NY”, festival che porta il teatro italiano in tutti i distretti della città e che quest’anno festeggia la decima edizione. Proprio al teatro italiano a New York è dedicato il suo ultimo lavoro, un documentario dal titolo “Tutti in scena”, da lei scritto e diretto.
• CHI È Laura Caparrotti
«Ho cominciato a fare teatro nell’ingresso di casa mia, a Roma»: si presenta così, nella sua bio su La Voce di New York, di cui è contributor. «Poi sono venuti i maestri, la laurea in discipline dello spettacolo e le tournée. Nel 1996, New York, nello storico The Kitchen». Quasi trent’anni dopo è ancora lì, ma non rinuncia alla sua spiaggetta a Pizzo. «Il teatro è la mia grande passione, insieme al ballo e alla (magggica) Roma. A New York ho anche iniziato a scrivere (con Stefano Vaccara nel 1997), a insegnare teatro, a fare voice over e la dialect coach. Il tutto condito da un inconfondibile – ma affascinantissimo, mi dicono – accento italiano».
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Essendo di Roma bisognerebbe chiedermi perché ho lasciato Roma… o l’Italia. Nel 1996 lo feci pensando di andare a fare un’esperienza di soli nove mesi in una città che mi piaceva tantissimo e che era New York. Ci sono rimasta perché evidentemente ci sto bene, risponde alle mie esigenze, mi dà una carica, cose che non trovavo in Italia».
Rimpiange o le manca qualcosa?
«Non ho rimpianti, mi mancano le persone e i sapori e poi mi manca tanto il tramonto che godo dalla mia casetta a Pizzo».
Cosa salva della Calabria?
«La gente, la natura, l’arte, il teatro, la danza, il talento e quella storia che è in tutti i monumenti, nelle tante lingue, nelle rughe delle persone».
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«A sapere dove vivo adesso… Diciamo che di New York non mi piace ora, post pandemia, la contraddizione fra i grattacieli che continuano ad essere costruiti e i tantissimi homeless, aumentati dopo la pandemia, molti dei quali sono mentalmente instabili e dunque pericolosi. E non mi piace per niente il sindaco!».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«A New York ci sono molti calabresi che sono venuti negli ultimi decenni, realizzando a New York cose bellissime in vari ambiti. Fra di noi ci frequentiamo, ci sosteniamo, ci sentiamo tutti figli di una stessa terra e ci piace rappresentarla. Le comunità o i gruppi di calabresi arrivati da più tempo o figli dei figli non fanno nulla per la Calabria e non ne parlano neanche».
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«E’ troppo banale dire che sono testardi, anche se lo sono e riescono perché non mollano. Credo però la sua grande forza sia adattarsi».
Ci sono, al contrario, degli stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«In America ci conoscono come Teste Dure, che forse è anche vero. Non ci sono altri pregiudizi predominanti. Certo dopo che Stanley Tucci è andato a dire alla CNN che il paese di suo padre sembra stare indietro di quasi un secolo, che sono arretrati in mentalità e come società, beh non so che tipo di giudizio verrà dato su di noi».
Tornerà in Calabria?
«Certo! Ci torno ogni estate per mesi e sto cercando di realizzare dei programmi fra la Calabria e altre nazioni estere, in primis l’America ovviamente».
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