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La trappola per Sacchetti a Rossano. «Ucciso a colpi di calibro 9, poi il corpo è stato frantumato»

I pentiti Nicola Acri e Ciro Nigro ricostruiscono l’omicidio del 5 febbraio 2001. Mancano ancora riscontri sul movente

Pubblicato il: 16/10/2023 – 12:19
di Pablo Petrasso
La trappola per Sacchetti a Rossano. «Ucciso a colpi di calibro 9, poi il corpo è stato frantumato»

COSENZA «Cinque o sei colpi di pistola» sparati al termine dell’incontro in un’azienda agricola. Il clan di Rossano aveva deciso che il 5 febbraio 2001 sarebbe stato l’ultimo giorno di Andrea Sacchetti. Un uomo – «inserito nei circuiti criminali» della città – di cui i capi non si fidavano. Quella mattina di febbraio Sacchetti, destinatario della misura di prevenzione, «esce di casa per non farvi più ritorno». Una scomparsa avvolta nel mistero per oltre vent’anni, fino a quando le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Nicola Acri e Ciro Nigro non fanno chiarezza sul “cold case” per il quale oggi è stato arrestato Rocco Azzaro. L’inchiesta della Dda di Catanzaro è firmata dai pm Stefania Paparazzo, Domenico Guarascio e Parolo Sirleo assieme agli aggiunti Vincenzo Capomolla e Giancarlo Novelli e al procuratore Nicola Gratteri.

Nicola Acri e Ciro Nigro, i due pentiti

Acri, “occhi di ghiaccio”, è un boss che decide di pentirsi nel maggio 2021. Conosce bene il contesto criminale della Sibaritide. Giovanissimo, riesce «a guadagnarsi la stima – così scrivono i magistrati antimafia – di due locali di ‘ndrangheta a cui Rossano Calabro faceva riferimento: Cassano allo Jonio da una parte, rappresentato dalla cosca Pepe-Abruzzese, e Cirò dall’altra, diretto dalla cosca Farao-Marincola». Killer spietato, «uomo di relazioni», il boss tiene rapporti con i clan dell’area, controlla il business di stupefacenti ed estorsioni, si inserisce nel tessuto commerciale rossanese
Nigro, da parte sua, è uno degli uomini di punta del gruppo di Corigliano che faceva capo agli Abbruzzese. Nell’ambito dell’inchiesta “Timpone Rosso” viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giorgio Salvatore Cimino, padre del collaboratore di giustizia Antonio Cimino. Ribadisce la volontà di collaborare con la Dda di Catanzaro nel giugno 2021, quando si trova detenuto nel carcere di Opera, a Milano. Volontà già espressa nel 2015. 

La trappola mortale nell’azienda agricola

Sacchetti viene attirato in una trappola. Acri gli avrebbe fatto credere di poterlo includere nei progetti criminali di Fioravante Abbruzzese per attrarlo nel tranello. È sempre Acri a procurare la calibro 9 con silenziatore e a organizzare la logistica: lo preleva in un posto lontano da occhi indiscreti, raggiunge un’azienda agricola quando i dipendenti sono ormai tornati a casa. Ad attendere i due ci sono Pepe, Rocco Azzaro (che aveva la possibilità di accedere alla struttura) e Fioravante Abbruzzese. L’omicidio avviene al momento dei saluti. Acri – secondo il suo racconto – non partecipa all’occultamento del cadavere. Il corpo viene distrutto «secondo una pratica già utilizzata per altri omicidi». «Azzaro – conferma il pentito in un interrogatorio del marzo 2022 – aveva assicurato Acri che il luogo dell’occultamento del cadavere era conosciuto, oltre che da lui, solo da Pepe e Fioravante Abbruzzese e che era sua abitudine frantumare i corpi da far sparire e disperderne i resti». 

Mancano riscontri sul movente

Le dichiarazioni di Acri e Nigro si riscontrano a vicenda sul luogo di commissione dell’omicidio e sul loro ruolo nella vicenda (Nigro avrebbe raggiunto Pepe e Azzaro dopo la morte di Sacchetti). Entrambi collocano sul posto Azzaro, «il quale prende parte all’omicidio e all’occultamento del cadavere; costui viene descritto da Nigro come intento, al suo arrivo, a pulire dal sangue di Sacchetti il piazzale antistante l’ingresso dell’azienda agricola». A differenza di Acri, Nigro non riferisce l’identità del ragazzo ucciso, spiega però di aver capito di chi si trattasse dopo aver letto la notizia della scomparsa di Sacchetti. C’è un solo aspetto, quello del movente e delle fasi preparatorie dell’omicidio, sul quale non vi sono riscontri. Ne parla soltanto Acri facendo riferimento a screzi tra clan (nei quali Sacchetti non avrebbe avuto comunque un ruolo di primo piano) e alla gestione dello spaccio di droga. «Si tratta tuttavia – evidenza il gip Gabriella Pede – di un elemento di poca rilevanza, in quanto la conoscenza del movente dell’omicidio e delle ragioni per cui si è deciso di togliere la vita a Sacchetti, seppure consenta di comprendere a fondo la vicenda, non è dirimente nell’individuazione delle responsabilità degli indagati». (p.petrasso@corrierecal.it

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