Le parole sono importanti, anche se stai a 7mila chilometri di distanza dalla tua terra d’origine: non a caso la sua casa di produzione si chiama Calabrisella Films, realizza opere tra gli Stati Uniti e Italia – specificamente Calabria – e Lucia Grillo la battezza con il suo primo cortometraggio da autrice, intitolato A pena do pana: musiche inedite di Sergio Cammariere, prima mondiale all’AFI Fest di Los Angeles, poi premio Miglior Corto Digitale al Riff-Roma Independent Film Festival nel 2005, in seguito viene mandato in onda su La 25ª ora su La7, con un’introduzione approfondita di Steve Della Casa, ed è in concorso a innumerevoli festival internazionali di cinema. Seguiranno altri corti e documentari, programmi tv sulla cultura italiana negli Usa (Lucia produce e conduce più di 80 episodi di mezz’ora e 40 puntate speciali di un’ora, tra gli intervistati spiccano Isabella Rossellini, Maria Sole Tognazzi, Mario Sesti, Antonio Monda, Gabriele Mainetti e altri personaggi nei campi dello spettacolo, sport, politica, scienze, cultura, ecc.), videoclip musicali.
• CHI È Lucia Grillo
Lucia Grillo nasce a New York da genitori calabresi, originari di Francavilla Angitola (Vibo). Contemporaneamente alla laurea, conseguita presso la prestigiosa Tisch School of the Arts della New York University, la laurea secondaria in Letteratura italiana e una borsa di studio sulla Divina Commedia presso la Casa Italiana Zerilli-Marimò della stessa NYU, segue per sette anni i corsi di recitazione della Lee Strasberg Theatre Institute a New York, iniziando nel loro Young People’s Program all’età di 15 anni. Attrice, regista, produttrice, conduttrice tv e “influencer”, Lucia lavora in teatro, televisione, cinema e pubblicità. Come attrice ha lavorato, tra gli altri, con il regista Spike Lee (Summer of Sam/Panico a New York e da protagonista nello spot televisivo per la Finlandia Vodka), Tony Gilroy (Duplicity), e con attori del calibro del premio Oscar Mira Sorvino, John Leguizamo, Gary Dourdan, Vincent Schiavelli e molti altri. Attualmente si vede in due serie: il dramma americano Switch con Olympia Dukakis e la commedia Untraditional a fianco di Fabio Volo. Attualmente produce e conduce “Lucia’s Vegan Lifestyle”, l’unico programma tv sul lifestyle vegano, in onda su MNN Lifestyle Channel e su Bronxnet Inform Channel, con una portata di spettatori sui 1,5 milioni. Per la sua attività culturale e divulgativa le è stato conferito il titolo di Ambasciatore di Calabria dai presidenti delle regioni Lazio e Calabria «per aver esaltato nel mondo del cinema la calabresità ben oltre i limiti regionali».
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Non ho affatto lasciato la Calabria! Invece sono “tornata” e vorrei tornare per mai più andare via, ma è difficile: solo perché sono nata a New York (da genitori calabresi) e anche se la mia anima è metà calabrese l’altra metà è fortemente metropolitana newyorkese. Comunque non scherzo quando dico che la Calabria è sempre presente nei miei pensieri e nel mio cuore – non sentimentalmente ma attivamente: sto sempre sviluppando progetti da girare lì e magari un giorno semplicemente per farmi le ferie come facevo da piccola».
Rimpiange o le manca qualcosa?
«Mi manca da una vita intera di essere pienamente calabrese. Anche se sono felice di essere nata a New York – perché come l’essere calabrese, è una cosa molto particolare, molto forte – le mie due prime lingue sono simultaneamente inglese e il dialetto calabrese (ovvero ‘a parràta Francavidrhòta) e i miei mi hanno cresciuta con delle tradizioni calabresi senza pensarci due volte, c’è qualcosa da dire sul vivere in un luogo e vivere la sua cultura quotidianamente. Più parlo l’italiano “ufficiale” più sto perdendo la conoscenza della nostra lingua, cosa che per me è molto importante sin da piccola quando, per esempio, andavo a scuola “italiana” la domenica e odiavo parlare quella lingua strana con dei suoni e le pronunce dure; e quando giravo per l’Italia da adolescente parlando in dialetto perché per me era ed è l’italiano: chiedevo un panino alle melangiane e la signora dietro al banco cercava di correggermi ripetendo “melanzane” e io insistevo “melangiane” – non era da “italoamericana ignorante”. Lo facevo apposta… (ride) Rimpiango il fatto di non aver ancora trovato le risorse per girare la mia serie tv basata sul libro epico “Umbertina”, che – assieme al mio primo lungometraggio d’autore– sto sviluppando proprio per esprimere tutto ciò che mi è mancato durante il percorso della mia vita: la pienezza della Calabria nel mondo, portata e diffusa dai calabresi. Ovunque. Il progetto dell’adattamento per la tv di quel libro storico su quattro generazioni di donne – ambientato tra Calabria e New York così come il lungometraggio – è stato sposato dall’attore italoamericano Michael Imperioli (White Lotus, Sopranos, Quei bravi ragazzi)».
Cosa salva della Calabria?
«Tutto ciò che ho la capacità di conservare. Cioè, dentro i parametri del non viverci quotidianamente, e di assorbire tutto quello che posso: le esperienze, le conversazioni con gli amici e colleghi, ascoltare sia gli anziani che i giovani, i visi, i suoni, i profumi, i sapori, respirarne l’aria, e apprezzare il nostro giardino naturale, un “Eden” aperto al mondo, la storia importante e piena di cultura, l’antropologia – tutto. E, nel mio piccolissimo, di questo tesoro cerco di conservare quanto più posso nei miei film e nei miei programmi tv, per me stessa e per condividere la nostra imparagonabile Calabria con gli altri».
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«La gentrificazione (il fenomeno di ripopolamento attraverso speculazione edilizia e immobiliare di quartieri considerati periferici, ndr). Vivo in un quartiere bellissimo, BedStuy ossia Bedford Stuyvesant (dove sono nati rapper come Biggie, Lil Kim, Jay-Z, Mos Def, Talib Kweli e altri grandi talenti) che mi ricorda veramente la Calabria: gente molto accogliente, persone che si prendono cura dell’altro, i vicini di casa che spazzano i pavimenti davanti casa, che si danno il buongiorno e l’augurio “be safe” (“stia attenta” o “arrivi a casa sana e salva”), si fermano per chiederti come stai, e se non ti vedono per un periodo si preoccupano, poi sono felicissimi di rivederti. Ora purtroppo è invasa da bianchi con parecchi soldi (o meglio: i soldi dei genitori) o in affitto o che stanno comprando tutte le case, persone senza cultura e che non rispettano l’ordine bellissimo e rispettoso del quartiere. Per esempio, aspettando di salire sull’autobus i giovani lasciano entrare per prima gli anziani, gli uomini si spostano per fare salire le donne e le bambine, ma i “gentrificatori” si infilano senza rendersi conto che c’è altra gente intorno. L’omogeneizzazione sta uccidendo il multiculturalismo newyorkese. Beh, poi ci sono altri problemi ma per ora mi fermo qui perché stiamo parlando di cultura e non di politica, anche se pure questo rientrerebbe nella categoria…».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«La città “fuori dal centro” (Manhattan, il principale dei 5 distretti di New York, ndr) dove sono nata ha perfino una “Casa Calabria” che molti anni fa era una sorta di associazione culturale, mentre ora ne è rimasto solo l’edificio con l’epigrafe sopra la porta. Quando ero piccola, la comunità era molta più affiatata, ma non facendone veramente parte perché vivo in un modo – e un mondo – molto diverso da questi; credo che oggi la comunità sia un po’ legata a degli aspetti arcaici: elementi che forse neanche i calabresi in Calabria, oggi, riconoscerebbero come calabresi».
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«La testardaggine. Ogni volta che qualcuno mi chiede “cosa” sono, rispondo orgogliosamente, per rinforzare la mia specificità: sono calabra-newyorkese. E inevitabilmente loro, ridacchiando con disprezzo poco nascosto e un’ignoranza molto ovvia, ribattono: “Ah!Ah!Ah! Sei testarda allora” o “Ah!Ah!Ah! I calabresi sono testardi”. E io dico “Sì, i calabresi sono testardi. Hanno una forza che li fa andare avanti nonostante tutto ciò che è stato fatto loro, sia in Italia che in altri luoghi dove sono immigrati; hanno la grinta di non mollare e di costruire delle cose incredibili; hanno un garbo eccezionale che li rende capaci di andare ovunque nel mondo e comportarsi nella maniera giusta. Sì, i calabresi sono testardi”. Non a caso, il mio ultimo documentario – con cui ho fatto una tournée in Italia qualche anno fa – si intitola “Testardi: calabresi a New York”: lì intervisto diversi calabro-newyorkesi che hanno avuto un certo successo professionale –proprio grazie alla loro testardaggine! Questo doc mi è stato commissionato in occasione del Calabria Day Usa e ha avuto varie proiezioni in Italia, compresi il teatro dell’Aquario di Cosenza e l’Apollo 11 a Roma – un sogno personale realizzato».
Ci sono altri stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«Terrone. Ma si può pensare che una parola così bella, nata dalla terra – che ho omaggiato nel mio documentario “Terra sogna terra” – venga usata come termine denigratorio? Per un calabrese la terra è la prossimità al nostro pianeta ma soprattutto la terra dove crescono i nostri cibi, i fiori, gli alberi, i corsi e gli specchi d’acqua: l’elemento che ci purifica e ci spegne la sete, che ci lega al resto del mondo…».
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