PALMI Il corpo riverso sul pavimento, i segni evidenti delle iniezioni, una siringa ancora in vena con un piccolo quantitativo di sangue all’interno. Quando i carabinieri di Palmi entrano nell’appartamento in via Tommaso Campanella il cadavere di un tossicodipendente racconta loro molte cose. Quel nome spuntato in molte intercettazione con uno dei pusher arrestati nell’inchiesta “Smart delivery” chiude un pezzo della storia. È il 6 aprile 2021: i contatti telefonici tra Antonio Paladino e il suo cliente sono cessati cinque giorni prima. Lo spacciatore prova ancora a contattarlo, si spazientisce addirittura: «Quando ti chiamo io tu non mi rispondi mai, mi dà fastidio sta cosa», scrive in uno dei messaggi riportati nell’ordinanza di custodia cautelare. Per i magistrati della Procura di Palmi guidati da Emanuele Crescenti quella di G. M. è “morte come conseguenza di altro reato”. L’autopsia accerta che la causa del decesso è «intossicazione acuta da overdose di cocaina». E i contatti nei giorni precedenti lascerebbero presupporre che a cedere la droga sia stato Paladino.
Nell’appartamento, i militari sequestrano «cinque dosi da un grammo ciascuna, due blister da 1,5 grammi ciascuno tutti avvolti in carta argentata e contenenti sostanza granulosa di colore biancastro riconducibile a sostanza stupefacente del tipo cocaina». L’esame autoptico rivela che l’assunzione di cocaina da parte della vittima «non fosse sporadica bensì cronica» e che la morte era avvenuta tra il 2 e il 3 aprile, «ossia il giorno dopo l’ultimo incontro con Paladino». Lo stesso Paladino è scosso per la morte del cliente. Ne teme le conseguenze al punto da disfarsi completamente dell’utenza cellulare con la quale aveva avuto contatti con la vittima dell’overdose. Le analisi effettuate sulla cocaina chiudono, a parere degli inquirenti, il cerchio: «Gli elementi di prova, se letti congiuntamente, dimostrano inequivocabilmente che fu Paladino a procurare e cedere la cocaina» che la vittima ha «assunto prima di morire e che, anzi, ne ha cagionato il decesso per overdose». La droga non era stata ancora tagliata ed era «troppa per essere smaltita in una singola assunzione». Per di più, «presentava una percentuale di principio attivo così alta da essere pericolosa per qualsiasi assuntore».
Da una scena del crimine reale, l’inchiesta della Procura di Palmi si sposta in una “stanza” virtuale. È la memoria di uno degli smartphone di Paladino, che viene infettato con un virus per captarne i dati. Gli investigatori ci riescono dopo mesi di tentativi andati a vuoto. L’occasione buona arriva proprio un mese dopo la morte del cliente per overdose. Paladino sarà pure stato scosso da quell’episodio, ma business is business: lo spaccio continua. L’ossessione del pusher per le intercettazioni riesce quasi a metterlo in salvo anche questa volta. Poche ore dopo il controllo che ha permesso l’inoculazione del software-spia, l’uomo cambia cellulare e fa sparire i propri dati. Prima che il telefono fosse spento, però, i carabinieri riescono a copiare pare del materiale. Scaricano la rubrica e la galleria. Dalla prima salta fuori il nome di un uomo ritenuto vicino alla cosca Pesce. Dalla seconda arrivano «immagini di interesse probatorio, che dimostrano una disponibilità di denaro contante a dir poco spropositata, specie per chi, nella vita, non svolge alcuna attività lavorativa». Mazzette di contanti in mano, sul pavimento, ostentazione di “simboli” come la gita al santuario di Polsi. Elementi che gli inquirenti aggiungono al curriculum criminale di Paladino, riassunto (si fa per dire) in sette pagine nell’atto di accusa.
Quelle immagini vengono «estrapolate nel corso della “brevissima durata (appena qualche ora)” dell’intercettazione telematica sul dispositivo di Antonio Paladino» e sono «altamente significative e non suscettibili di ulteriori commenti, specie in riferimento a tutte quelle in cui il soggetto “ostenta” le “mazzette” di denaro contante che ha nelle mani e gioisce in volto». Per gli investigatori «è evidente che, non avendo l’indagato uno stabile rapporto di lavoro e dedicandosi quotidianamente all’attività di “spaccio al dettaglio”, le somme di denaro che conserva tra le immagini della “galleria” del suo cellulare sono frutto di attività illecite riferite alla commercializzazione dello stupefacente in un contesto quantomeno ispirato alla criminalità organizzata (vedasi, in tal senso, anche la foto presso il Santuario della Madonna di Polsi a San Luca in compagnia di altri soggetti)». Quei soldi esibiti nelle foto sono troppi «rispetto alle reali possibilità che ordinariamente deriverebbero dal suo status di disoccupato». Sono le due facce dello spaccio: c’è chi prova a fare la bella vita e chi muore.
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