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Tecnologia digitale, rischi e opportunità. «Diffuso ritardo nel capire gli impatti psicologici e sociali»

Intervista al sociologo Derrick De Kerchove. «Nella nostra testa sempre più spazio agli algoritmi». Il monito: «Accompagnare i ragazzi»

Pubblicato il: 27/10/2023 – 15:33
di Emiliano Morrone
Tecnologia digitale, rischi e opportunità. «Diffuso ritardo nel capire gli impatti psicologici e sociali»

Le tecnologie digitali favoriscono la didattica e l’interazione degli studenti. Da tempo rodate nell’apprendimento scolastico, durante la pandemia vennero utilizzate per le lezioni a distanza. Oggi, però, è sistematico il ricorso dei ragazzi a piattaforme, applicazioni e sistemi digitali che in pochi secondi consentono di acquisire la traduzione di interi brani latini, di ricevere temi scritti, lo svolgimento di esercizi di Matematica o la risoluzione di altri compiti. La scuola è stata trasformata dalle tecnologie digitali, che costituiscono un ausilio efficace per la formazione di una conoscenza interdisciplinare. Tuttavia, talvolta esse rappresentano una grave minaccia per la crescita dei minori, che le istituzioni del sapere non riescono ad affrontare in maniera adeguata. Dalla progressiva scomparsa della memoria alla costruzione dell’identità sui social; dall’omologazione alla crisi esistenziale delle nuove generazioni; dal divario digitale del Sud all’esibizionismo in rete fra minorenni; dalle tragedie in streaming ai nuovi mercati del porno on line; dal recupero della cultura umanistica all’età gioachimita dello Spirito, sino alla sua possibile realizzazione nella Quantum technology, discutiamo di pro e contro delle più moderne tecnologie con il professor Derrick De Kerchove, sociologo, teorizzatore dell’«intelligenza connettiva» e già direttore del “McLuhan Program in Culture & Technology” dell’Università di Toronto, cui diamo del Tu in ragione dei datati rapporti personali.

Professore, si dice che i bambini di oggi sono “nativi digitali” perché da subito mostrano dimestichezza con le nuove tecnologie. Qual è la tua opinione al riguardo?
«È vero, i minori usano queste tecnologie abbastanza bene, ma senza andare in profondità, un po’ come facciamo noi adulti con le automobili. Oggi i ragazzini sono esperti nell’uso delle nuove tecnologie, ma non ne inquadrano il contesto di riferimento né conoscono le caratteristiche e le possibili conseguenze di tali strumenti. Neppure i loro genitori e i loro insegnanti ne hanno contezza. Il problema è proprio questo. Siamo prigionieri di una cultura digitale senza sapere di che cosa si tratta. Le tecnologie digitali si sviluppano molto rapidamente; pensiamo a quelle ora più importanti: il metaverso e ChatGPT. Ne deriva un diffuso ritardo nel capire gli impatti psicologici, sociali, direi esistenziali, che le ultime tecnologie digitali possono avere. A mio avviso, ancora dobbiamo attraversare un periodo di transizione alquanto complesso. Pertanto, i più giovani sono essenziali per affrontare questa condizione di instabilità, di passaggio. Ciò perché i ragazzi hanno un sistema nervoso fresco, capace di assorbire tutte le novità e le trasformazioni in corso».

Quali sono i vantaggi delle tecnologie digitali per l’istruzione e l’educazione delle nuove generazioni?
«Le tecnologie digitali avrebbero prodotto vantaggi importanti, se i professori e gli insegnanti avessero imparato ad usarle. Sono pochi, infatti, i docenti che ne hanno piena padronanza, non soltanto in Italia. La maggior parte degli attori dell’educazione e dell’istruzione comincia in ritardo a capire come funzionano le tecnologie più recenti, che hanno grandi pro e altrettanti contro. Al riguardo, i ragazzi sono generalmente avanti rispetto ai loro professori, perché hanno già capito come tali tecnologie funzionino. In proposito potremmo dire, con un’espressione inglese, che per i più giovani avviene il cosiddetto «learning on the job»: attraverso l’utilizzo diretto, essi imparano sul campo meccanismi e specifiche delle nuove tecnologie digitali. Non voglio generalizzare, però. Conosco alcuni colleghi che sono abbastanza bravi, che sanno maneggiare codeste tecnologie. Sono professori universitari che ne hanno esplorato gli impieghi e ne hanno valutato i vantaggi e i rischi. In generale, però, ciò non succede: c’è ancora una scarsa conoscenza di tali strumenti, delle loro potenzialità e dei loro effetti positivi e negativi. ChatGPT, per esempio, aiuta a scrivere, a pensare, a creare immagini, a disegnare, cioè a compiere quelle attività che nelle scuole ci si attende dai ragazzi. Questo è un aspetto, poi c’è il rovescio della medaglia, nel senso che dall’altra parte tu puoi dipendere completamente da ChatGPT».

Il digital divide è ancora marcato in alcune aree dell’Italia, specie nel Mezzogiorno, nonostante gli ingenti investimenti pubblici finalizzati a colmarlo. Qual è il tuo punto di vista in proposito? Che cosa rischia di produrre il perdurante gap, in ambito digitale, fra Nord e Sud?
«In genere l’investimento pubblico gratifica la coscienza di chi lo distribuisce. Mettere dei soldi sul piatto non basta a risolvere una problematica di cultura profonda. Bisogna portare soldi, ma con l’idea di spenderli per strumenti idonei. Ad esempio, comprare, specie al Sud, una cinquantina di computer non è ciò che va fatto per ridurre il divario digitale. Meglio acquistare tre computer e avere la disponibilità di tre professori che insegnino agli studenti come usarli. Il problema è proprio il ritardo di mentalità. In questo, senso l’Italia si è rassegnata, ha accettato l’inerzia, la passività rispetto al governo della cultura digitale. Questo è grave».

Cioè?
«A mio parere, la vera difesa dell’Italia è nella scuola, è nell’educazione. La vera difesa della nostra democrazia è proprio l’educazione al sapere, alla conoscenza, alla vita, che richiede attenzione, capacità di anticipare i tempi, interventi concreti volti a sviluppare la cultura digitale nelle scuole. Nel merito il Sud è messo peggio, basti guardare i bagni di molte scuole meridionali. Ma io ricordo il preside Benito Capossela, grande figura di Torre Annunziata, morto due anni fa, che all’inizio del nuovo millennio cominciò ad attrezzare la propria scuola, un liceo classico, con i pochi soldi che trovava. Aveva una passione formidabile, aveva capito con largo anticipo l’orientamento che le nuove tecnologie digitali avrebbero impresso alla didattica».

Ci sono esempi positivi, insomma.
«Pure nel Nord ho avuto esperienze interessanti di questo tipo. Per esempio, a Sassuolo, con Cristina Cavallari, che ha introdotto il metaverso come argomento di lezione per i suoi liceali. Ho anche lavorato al Politecnico di Milano. L’anno scorso, lì ho tenuto un corso agli studenti di Design su come creare un metaverso. Quest’anno, poi, lavoro unicamente su ChatGPT, per sapere come gestirlo, come trattarlo, come usarlo bene, come implementarlo insieme ai miei studenti. Nelle scuole e nelle università bisognerebbe basare l’insegnamento sull’idea che tutti insieme dobbiamo esplorare queste novità, in modo da arricchire la nostra esperienza e coinvolgere gli studenti nella partecipazione e nella scoperta, senza pretendere di sapere tutto. Come ho detto, i ragazzi hanno un sistema nervoso fresco, il che è un valore da non sprecare. Se tu dai loro qualcosa di interessante e coinvolgente, loro l’accolgono bene».

L’autonomia differenziata, espressione con cui si intende il regionalismo differenziato, dunque l’aumento dei poteri delle Regioni, può allargare il divario digitale tra Nord e Sud di cui abbiamo parlato?
«Non necessariamente. Ora siamo tutti dipendenti dalle nuove tecnologie, a partire dal telefonino. Ciò vuol dire che non possiamo più negare l’importanza di essere aggiornati al riguardo. Tutte le regioni avranno i loro Capossela e le loro Cavallari. Allora il problema non è tanto il regionalismo della scuola e dell’insegnamento, ma creare da Nord a Sud, e viceversa, associazioni di scuole che lavorino in sinergia, che condividano metodologie, saperi, competenze ed esperienze riguardo all’utilizzo delle nuove tecnologie digitali e, assieme, alle questioni e ai pericoli correlati. Purtroppo, oggi le scuole lavorano ancora in maniera isolata, ad esempio in fatto di cyberbullismo. Il punto, dunque, è condividere i capitali intellettuali maturati nelle singole realtà, altrimenti il regionalismo non ha alcun impatto sui temi di cui stiamo discutendo».

Finora hai detto del pericolo del cyberbullismo, del pericolo che ChatGPT diventi un sostituto dello studente. Nell’universo digitale vi sono, poi, altre possibili degenerazioni, per esempio nell’ambito dei social. In proposito mi viene in mente la storia recente del suicidio, in diretta su Tik Tok, di “Inquisitor Ghost”, un cosplayer italiano che non avrebbe retto ad accuse ricevute da alcuni utenti. Come leggi il fenomeno dell’esibizionismo digitale sui social, che appare piuttosto incontrollato già nella fase della formazione scolastica?
«Ormai la nostra identità si crea fuori del nostro essere, non più dentro. Quando avevo 13 o 14 anni, cominciavo ad avere le mie idee, facevo le mie letture, mi confrontavo con gli amici ma avevo già una coscienza interna di chi fossi. I ragazzi di oggi, invece, si prendono sul serio a condizione che siano conosciuti, visti, apprezzati, che ricevano like, commenti e così via. Non tutti, per carità; ci sono delle eccezioni. Tuttavia, il rapporto tra il sé e il mondo sta cambiando tanto. Il sé del ragazzo si svuota: l’interno del suo essere evapora nel discorso permanente dei social; il chiacchiericcio dei social media dà al singolo un sentimento di valore. Al contrario, noi abbiamo sempre dovuto riferire noi stessi all’altro, per avere un sentimento di valore. Trascurare questo cambiamento contemporaneo è gravissimo. Una ragazza che si suicida a causa di dinamiche social ha già in partenza dei problemi gravi. Quando si passa a una grande transizione, a un grande cambiamento di medium, che crea in generale la cultura, le personalità fragili sono le più esposte, le più soggette al suicidio. Vedi, per esempio, la vicenda della minorenne britannica Molly Russel, avvenuta in un contesto digitale pericolosissimo quanto ignorato e incontrollato. Stiamo passando da una cultura della colpevolezza, che è una motivazione interna, a una nuova cultura della vergogna. Quelli che si suicidano, certamente lo fanno per vergogna».

Rispetto a questa nuova cultura, che non tiene più conto della coscienza interiore, della consapevolezza interiore, della formazione interiore, la scuola è debole? Se lo è, che cosa potrebbe fare sul piano pedagogico?
«Si tratta di una cultura tutta rivolta all’esterno, che si produce all’esterno. Fui accusato di essere reazionario quando dissi che bastava la lettura individuale perché un ragazzo formasse la propria cultura dentro di sé. È sempre meglio leggere sulla carta, non su qualche schermo. Sei tu, se leggi sul cartaceo, il padrone della parola. Allora non vieni indirizzato, plasmato dal sistema, non vieni invaso dagli algoritmi. Ancora, la scuola dovrebbe abituare i ragazzi a imparare le poesie con il cuore, a mettere contenuti in testa, che è un luogo di passaggio, non una stanza, un palazzo interiore in cui si accumulano contenuti pertinenti. Creare un contenuto vuol dire creare una situazione in cui tu ti impossessi della parola, invece di subire i danni delle nuove tecnologie. Non vorrei per niente demonizzare la cultura digitale, che è fenomenale, ha una ricchezza straordinaria. Tuttavia, essa contiene il pericolo che si svuoti il contenuto e che si polverizzi la privacy. Oggi siamo spinti a prendere delle decisioni sulla base di algoritmi: la testa si svuota e gli algoritmi prendono campo, aumentano, diventano dominanti. Questo è un altro grosso problema».

Che cosa ci riserva il futuro, sul piano della conoscenza e dell’esistenza?
«Presto avremo un accesso inimmaginabile a una mole fenomenale di dati, quelli che da 40 anni tutti noi, nel mondo, abbiamo messo dentro la rete e dentro l’intera cultura digitale. Credo che questo accesso si prospetterà facilitato, poiché niente sarà più rimasto dentro la nostra testa. Il rapporto personale con questa dimensione informativa sarà sempre più stretto e continuo. La trasformazione epocale consisterà nel passaggio dalla responsabilità personale a quella della macchina capace di condurre l’individuo. Questa è la direzione verso cui andiamo, ma il sistema educativo non l’ha ancora capito. Allora, servirebbero strumenti idonei per seguire i ragazzi più fragili o cedevoli rispetto alle insidie delle nuove tecnologie digitali. Penso a scuole specializzate come quelle che già sostengono la formazione e la crescita di minori con particolari problematiche intellettive. I bulli digitali, per esempio, dovrebbero essere trattati a parte, ma come malati, non come criminali. Il bullismo c’è sempre stato, ma il cyberbullismo ne è un’amplificazione molto preoccupante».

Sessualità virtuale, web e nuovi mercati del porno. Perché se ne parla poco in termini analitici? Come le istituzioni pubbliche, a partire dalla scuola e dal legislatore, potrebbero o dovrebbero intervenire sull’argomento?
«La sessualità è rimasta per tanto tempo un tabù, nella cultura cristiana e in quella cattolica in particolare. La lunga repressione ha creato il fenomeno opposto, ha infiammato il desiderio. In generale, al momento non abbiamo la più pallida idea di come intervenire rispetto alla pornografia online, subito accessibile a tutti e addirittura di impulso per lo sviluppo del metaverso. Moralità e comportamenti di sessualità mutano con ogni cambio di tecnologia dominante. Oggi non abbiamo ancora capito che tipo di sessualità avremo. Per il momento siamo prigionieri della repressione, che continua a un livello più discreto del passato. Io credo molto a Georges Bataille, a proposito degli effetti della repressione sul desiderio, che ne viene alimentato. La repressione è legata all’idea della colpevolezza, che non è sempre un male, perché importa una responsabilizzazione individuale verso se stessi e gli altri. Sul web non c’è più repressione, perché l’accesso è immediato e non c’è nessuno che ponga ostacoli. Sul punto, mi focalizzo sull’aspetto di transizione: verso che tipo di sessualità stiamo andando?»

E la risposta qual è?
«Non ne ho una strutturata, ma ritengo che debba essere cercata a vari livelli; per esempio, dai teorici, dai giuristi, dagli educatori. Secondo me, dovremmo iniziare a ripensare la sessualità alla sua base, e non più nelle sue declinazioni culturali. Alle soluzioni estreme corrispondono due pericoli evidenti, che valgono anche per l’uso delle droghe. Se si proibisce, si crea un mercato nero; se si permette, si invita al caos.  La soluzione di Freud era di indentificare i motivi profondi per sbarazzarsi della colpevolezza, ma questa strategia ci ha rovinato: : ha letteralmente distrutto la colpevolezza, ha frantumato l’idea che tu sia responsabile di ciò che pensi, di ciò che fai. Senza ombra di dubbio, poi, ci sono degli aspetti pratici legati al tema generale dei minori, all’esibizione della sessualità, alla mercificazione della sessualità. Allora servirebbe un intervento legislativo molto approfondito, sul presupposto che, all’inizio della storia della rete, il matematico e informatico John von Neumann sosteneva la possibilità di tracciare tutte le fonti della rete, anche se oggi ciò è controverso e insieme difficile».

Temi che le risposte istituzionali ai fenomeni e ai pericoli di cui abbiamo parlato siano sganciati da una base umanistica, per esempio letteraria, filosofica e artistica che ribadisca la centralità della vita umana?
«Di certo possono essere utili la letteratura, la filosofia e l’arte, per prevenire i fenomeni, i pericoli che abbiamo esaminato. Ti racconto, però, una storia che mi è successa l’altro ieri. Avevo passato molto tempo a preparare un intervento di 20 minuti alla Festa del cinema di Roma. Non sapevo di dovermi rivolgere a una platea di giovani. Dopo, però, per discutere delle tecnologie attuali che possono cambiare il concetto del cinema, ho parlato del romanzo “Fahrenheit 451”, poi trasposto in pellicola. Ray Bradbury, autore del libro, aveva previsto un po’ tutto, anticipando le trasformazioni della tecnologia.  Saltando al presente, volevo arrivare a dire che oggi ci sono le condizioni per creare un metaverso oppure un videogioco fatto a partire da ChatGPT. Non ho avuto il tempo di dirlo, perché due ragazzi sono venuti per pormi delle domande e uno di loro mi ha detto che non gli importava affatto il mio collegamento con il passato, nello specifico con il romanzo e il film “Fahrenheit 451”. Se, allora, il passato non ci interessa, la cultura umanistica, letteraria, filosofica e artistica finisce nel cestino. Non va bene rifiutare il confronto con il passato, evitare di conoscerlo per capire il futuro. È vero che la trasformazione digitale ha suscitato una rottura radicale tra il passato e il futuro, ma scaricare completamente il passato significa privarsi della formazione umanistica. Bisogna fare i conti con la realtà: spesso i più giovani si disinteressano della cultura umanistica, non è più un loro riferimento». 

Come intervenire, quindi?
«Bisogna esaminare il problema. A che cosa serve la cultura umanistica ai ragazzi di oggi? Dobbiamo imporla o invece, come per il discorso sulla sessualità, vedere di agire in un’altra dimensione, considerare un altro orientamento? L’umanesimo classico dava la priorità alla formazione dell’individuo; la prima formazione classica comincia con Ignazio di Loyola e la ratio studiorum gesuita. Questa dimensione dell’uomo sta però sparendo. Come ho già detto, la nostra testa va svuotandosi per dare sempre più spazio agli algoritmi, per sviluppare il rapporto individuale con l’enorme mole e memoria di informazioni che abbiamo messo dentro la rete. Ormai la cultura digitale ha determinato un fatto: il corpo non è più responsabile delle cose, ma è responsabile del rapporto con la conoscenza disponibile. Questo è l’aspetto da inquadrare. Pertanto, la connessione con la cultura umanistica può ritrovare un proprio posto dentro l’amore per la conoscenza, dentro la persona. Bisogna dunque accompagnare i ragazzi, guidarli ad acquisire il senso della bellezza. Il punto vero è che non abbiamo più coltivato questa prospettiva, questa dimensione. L’ideale greco era «kalòs kai agathòs», cioè «bello e buono». Sono i fondamenti dell’umanità, e noi dobbiamo tornarci».

Diciassette anni fa avevamo parlato dell’età dello spirito, di Gioacchino da Fiore, e ci eravamo chiesti se coincidesse con l’età digitale, se la rivoluzione digitale potesse essere quel tempo, profetizzato dall’abate calabrese, dell’emancipazione collettiva e del compimento della giustizia dentro la storia umana. La domanda era rimasta aperta, però tu eri nel merito possibilista. A distanza di quasi 20 anni da quella discussione, tu pensi che nel complesso il digitale sia in qualche modo l’età dello spirito teorizzata da Gioacchino da Fiore?
«Non il digitale. Dopo la promessa di liberazione via Internet, i social media l’hanno trasformato in prigione di populismo e di negazionisti. Ma, grazie a Dio, o a qualcun altro, il digitale sarà fra poco superato dalla tecnologia quantistica, che è più capace di attingere a una dimensione spirituale. Essendo capace di sintetizzare sempre più dati, il “Quantum” favorisce la complessità, l’inclusione e la conoscenza approfondita del contesto più largo di ogni situazione. Ci sarà un modo di mettere insieme le conoscenze, le scoperte, le conquiste e l’aspirazione spirituale dell’uomo, per andare verso quella dimensione profetizzata dall’abate Gioacchino. Io non sono disperato per il presente, sono triste per le guerre fra Hamas e Israele, tra Russia e Ucraina. Sono preoccupato per il crescente populismo, che è colpa dei social media. Sono toccato dallo svuotamento progressivo delle competenze, agevolato da ChatGPT, con tutti i conseguenti problemi, che andranno ad aumentare sino a cessare. Abbiamo bisogno di un sistema che mantenga il principio di incertezza legato al “Quantum”, mantenendo la sovrapposizione dei dati come fa il quantum, l’intreccio di tutti con tutto che viene anche dalla fisica quantistica. Ci sono molti fisici e sociologi arrabbiati con me quando faccio questo discorso, ma anche è vero che ormai dipendiamo da dati aggiornati, corretti, complessi e comprensibili, che sono a disposizione grazie all’enorme quantità di sensori presenti nel mondo, con cui è possibile l’organizzazione di una conoscenza inclusiva presso tutti gli uomini e tutti gli esseri viventi. La mia intuizione prevede lo sviluppo di una coscienza planetaria che tiene conto non solo dell’umano, del sé di ciascuno di noi, ma di tutta l’umanità, di tutte le specie viventi fino agli insetti e alle piante. Si tratta di portare il pianeta nel nostro sentimento primordiale al posto del nostro sé egocentrico e privato». (redazione@corrierecal.it)

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