Su quello che accade nel ventre di Cosenza, spesso è più informato dei cosentini stessi. Ma da oltre dieci anni ha messo radici a New York, benché non rinunci a girare il mondo per lavoro nei panni di fonico di presa diretta specializzato in documentari naturalistici e itineranti in genere, «meglio se girati in luoghi remoti del globo». Crede «nel potere perturbante della musica e del suono», qualsiasi cosa faccia si trova a suo agio «in territori onirici, metafisici, impervi». Le sue risposte non sembrino troppo canzonatorie perché forse custodiscono più verità di quelle serie o presunte tali…
• CHI È Luigi Porto
Compositore, produttore musicale e sound designer per il cinema, la sua produzione spazia dall’alt-rock all’elettronica, fino alla musica orchestrale e all’opera; suona dal vivo con backing bands ed ensemble. I suoi dischi sono distribuiti da Cineploit, Snowdonia, Light in the Attic, Cold Current Prod. e dalla sua etichetta Respirano Records, con cui quest’anno ha pubblicato la compilation “No Need To Fear”, che comprende una selezione di artisti provenienti da New York e Cosenza, presentata con un house concert a Manhattan. La sua musica scritta è eseguita in venues internazionali (Carnegie Hall, La Croisette, Stanislavsky theater tra gli altri) e ha musicato diversi film, documentari e video d’arte selezionati ai maggiori festival cinematografici. Nel 2021 ha fondato, con Respirano Records, anche lo studio di sound design Respirano Sound. I suoi ultimi lavori sono l’Lp Tell Uric, la colonna sonora di Uljhan-The Knot, il concerto per fisarmonica ed orchestra Nebulosa e il primo disco della psych-rock band newyorkese Manicburg che uscirà alla fine dell’anno. Ha firmato il sound design di oltre 100 tra film e documentari, alcuni presentati agli Oscar o nominati agli Emmy Awards.
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Mai».
Rimpiange o le manca qualcosa?
«No, vengo almeno due mesi all’anno se non tre. Anche perché pago l’assicurazione della macchina».
Cosa salva della Calabria?
«Tutto ciò che dicono i più beceri luoghi comuni è verità: si mangia benissimo, si va a funghi, la Sila, il mare, adesso mi permetto di aggiungere il vino, ché da fine anni Novanta abbiamo delle cantine che producono rossi e bianchi di altissimo livello e che dovrebbero essere pubblicizzati di più all’estero».
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«Di New York l’inverno di otto mesi e il costo della vita spropositato, ma su quest’ultima cosa anche Cosenza non scherza ultimamente. Degli Stati Uniti la lista di cose che non mi piacciono sarebbe troppo lunga».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«Non ne ho la più pallida idea, non ne conosco molti in città, gli italiani che mi capita di frequentare sono tra l’altro forse in maggioranza romani. Ma non ho mai sentito questo bisogno di fare comunità, sono sempre stato un “loner” (solitario, ndr) con tanti amici e conoscenti però sempre evitando di identificarmi troppo. Di recente, ad esempio, ho passato una domenica particolare in compagnia di italiani, ma di solito sono l’unico italiano tra la gente che frequento, soprattutto nella scena musicale. Mi piace invece fare il contrario, cioè insegnare la mia cultura a persone nate altrove. I miei amici americani, asiatici, sudamericani, eccetera sanno cos’è la serie B del campionato italiano».
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«Non lo so dire a parole ma nei fatti sono orgoglioso di aver pubblicato l’estate scorsa con Respirano Records la compilation Bandcamp No Need To Fear, dove ho unito artisti di NYC ad artisti originari della provincia di Cosenza, chi attivo lì, chi invece altrove (ad esempio la cantautrice Gintsugi a Grenoble, o Paolo Gaudio a Milano). Ecco ho detto New York City e Cosenza, non Stati Uniti e Italia, o Tri-State Area e Meridione, o New York State e Calabria. Sicuramente tra noi meridionali estremi ci riconosciamo, quando incontri un calabrese nel tuo campo di certo non è come quando si incontrano due laziali o due lombardi – abbiamo una percezione comune di provenire “dai margini” come credo capiti anche ai sardi e ai friulani, non so quanto ci sia effettivamente identitario e quanta semplice condivisione del fatto di provenire da una realtà periferica e non privilegiata».
Ci sono, al contrario, degli stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«Non particolarmente, anzi la Calabria è difficilmente associata a qualcosa da chi non è italiano e non la conosce per qualche connessione personale. Al massimo conoscono la Sicilia. Secondo me c’è molta narrativa artificiale rispetto a questo, in realtà a molti non frega nulla delle questioni identitarie delle varie regioni, gli italiani ragionano al massimo per città di provenienza. Un toscano ti dirà di essere fiorentino o grossetano, un laziale ti dirà di essere romano, al massimo ciociaro. Io se proprio devo mi sento legato alla città in cui sono cresciuto più che all’intera regione, con tutto il rispetto per la Calabria, la sua forma simpatica, ma è un posto enorme che ha luoghi bellissimi e altri meno belli, soprattutto diversissimi l’uno dall’altro, dialetti provenienti da ceppi opposti, non ho mai creduto in un’identità calabrese tout court. Credo invece che ci sia un’identità più estesa e profonda, quella mediterranea. Abbiamo una vicinanza con turchi, greci, libanesi, levantini in genere, che avverti solo quando ti trovi circondato da persone provenienti da territori differenti. Ecco, credo nel mare e nelle montagne come bandiere da sventolare e confini fisici. Per il resto, le “vave” (un mix di vanteria e millanterie in slang cosentino, ndr) sulla Calabria eccetera le rifuggo dagli anni Novanta almeno. Quando mi chiedono da quale parte dell’Italia vengo mi piace rispondere “the mafia side” così si spaventano».
Tornerà in Calabria?
«Come ho detto non sento di essere mai andato via, il lavoro autonomo mi permette libertà di movimento ed ho moltissimi legami affettivi e lavorativi con i prefissi telefonici e i Cap su cui mi sta intervistando, se dobbiamo parlare per forza di distretti…».
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