COSENZA Gli episodi di violenze perpetuate ai danni delle donne non diminuiscono nel tempo. Ma restano costanti. Una circostanza che, secondo Giovanna Vingelli, docente di Sociologia generale al dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical, dovrebbe particolarmente preoccupare perché indica come il fenomeno sia «fortemente radicato» nella società.
La professoressa dell’Università della Calabria, evidenzia a questo proposito ad esempio che «l’unico crimine violento contro la persona che non accenna a diminuire è il femminicidio». La Calabria in questo senso non è differente dal resto del Paese e «se c’è una peculiarità calabrese – sostiene Vingelli – è probabilmente riscontrabile nell’intreccio fra violenza maschile sui corpi e violenza esercitata dalle organizzazioni criminali, in cui la dimensione del controllo nella sfera privata e il controllo del territorio si incontrano nel controllo dei corpi delle donne».
Per la docente di Sociologia, la Calabria come il resto del Paese non fa abbastanza per prevenire episodi di violenza di genere. Secondo Vingelli per affrontare questo dramma occorrerebbe «un approccio sistemico al problema della violenza che consenta di progettare interventi di supporto e di prevenzione coerenti e non frammentati».
Professoressa, ogni giorno si susseguono episodi di violenze sulle donne. Spesso consumate tra le mura domestiche. La Calabria non è esente dal fenomeno. A cosa addebitarla?
«La violenza contro le donne è un problema sociale di dimensioni endemiche e presente in ogni Paese e in ogni area del Globo, tanto da farla definire come “genocidio di genere”. Ricomprende l’insieme delle violenze esercitate sulle donne, in tutte le fasi della loro vita, in qualunque contesto, pubblico o privato, operate per mano di uomini e giustificate dall’appartenenza al genere femminile. Le donne che subiscono violenza e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali e culturali e a tutti i ceti economici: il fenomeno della violenza di genere è trasversale all’età, la provenienza geografica, le condizioni socioeconomiche. La violenza di genere contro le donne è quindi un fenomeno strutturale, fortemente radicato, che si combina con la diffusione di stereotipi di genere. Ed è un fenomeno in gran parte sommerso, nella maggior parte dei casi agito in ambito privato, appunto fra le mura domestiche. In Calabria (secondo gli ultimi dati Istat disponibili del 2014) il 26,4% delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: in particolare, il 16,5% ha subito violenza fisica, il 16,1% violenza sessuale, e il 4,1% uno stupro o un tentato stupro. L’incidenza della violenza sulle donne calabresi è sostanzialmente costante nel corso degli anni, come mostra il confronto fra la rilevazione Istat del 2006 e quella del 2014. Anche per quanto riguarda le donne minori di 16 anni, l’incidenza è particolarmente alta. I dati sono prevalentemente inferiori alla media nazionale, dato che necessita di un approfondimento qualitativo. È invece superiore alla media nazionale l’incidenza delle donne che ha riportato ferite e danni permanenti a seguito dell’episodio di violenza».
Episodi decisamente violenti che spesso sfociano in omicidi. Si può parlare di recrudescenza?
«I dati sui femminicidi sono (purtroppo) costanti negli ultimi 15 anni. Non credo si possa parlare di un aumento della violenza contro le donne: piuttosto dovrebbe preoccuparci il fatto che i numeri non diminuiscano, nonostante l’investimento “normativo” e un discorso pubblico più attento a questo tema. Le statistiche ci dicono che viviamo in una società meno violenta (ad esempio i dati sugli omicidi sono drasticamente diminuiti negli ultimi venti anni): l’unico crimine violento contro la persona che non accenna a diminuire è appunto il femminicidio, l’uccisione di una donna per motivi legati al suo genere. Di nuovo, questo è estremamente preoccupante, e non è certo un dato emergenziale, ma paurosamente costante nel tempo: un’ulteriore prova della dimensione strutturale del fenomeno, che si può affrontare solo con interventi altrettanto strutturali (e non emergenziali o in una logica esclusivamente repressiva e securitaria), come fra l’altro ci suggerisce la Convenzione di Istanbul».
E poi ci sono quelle vessazioni che non si tramutano in atti violenti. Ma puntano a condizionare la vita delle donne. È un fatto anche culturale?
«La violenza non è solo fisica o sessuale, ma anche la violenza psicologica, la violenza economica, le molestie, le persecuzioni, la cyber-violenza. Ogni atto e/o discriminazione – fondata sul genere – che provoca o è suscettibile di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, è una violenza, ed una violazione dei diritti umani. Non è solo una questione culturale: la violenza contro le donne è profondamente radicata nelle diseguali relazioni di potere tra uomini e donne nella società. La violenza sulle donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini».
Dal suo punto di vista c’è qualche peculiarità in questi episodi in Calabria o il fenomeno non è diverso rispetto ad altre aree del Paese?
«Il fenomeno della violenza contro le donne è assolutamente trasversale: non conosce confini geografici, differenze culturali, di classe, di etnia, religiose ecc. Se c’è una peculiarità calabrese, è probabilmente riscontrabile nell’intreccio fra violenza maschile sui corpi e violenza esercitata dalle organizzazioni criminali, in cui la dimensione del controllo nella sfera privata e il controllo del territorio, si incontrano nel controllo dei corpi delle donne. Il controllo totale sulle persone e sui corpi è conseguenza diretta ad esempio del concetto di onore nei contesti di ‘ndrangheta. È da alcuni giorni che è stato pubblicato un libro molto interessante a questo riguardo (Sabrina Garofalo, “Donne, violenza e ‘ndrangheta”, Novalogos) che analizza questi aspetti in maniera innovativa
La società calabrese ha la capacità di risposta vera rispetto a questi episodi?
«Sicuramente sì. In Italia e in Calabria, il campo dell’antiviolenza si è costituito a partire dalla mobilitazione e dalle riflessioni dei movimenti delle donne e femministi che, sul finire degli anni ottanta, hanno preparato il terreno per la nascita dei primi centri antiviolenza e delle case rifugio, le cui pratiche antiviolenza si fondano sulla relazione tra donne, l’approccio di genere, la centralità dei bisogni, dei desideri e dell’empowerment delle donne. In Calabria ci sono associazioni e centri antiviolenza, ma sempre di più anche le Università e i luoghi della formazione, che hanno svolto e svolgono un ruolo propulsivo. Non solo articolando un frame teorico e una metodologia di intervento per il supporto delle donne sopravvissute alla violenza, ma anche in qualità di agenti di cambiamento sociale. Non vedo nella società civile il problema principale, quanto piuttosto nella capacità delle istituzioni di cogliere le opportunità di fare rete, di ascoltare soggetti competenti e non improvvisati, e nella frammentazione degli interventi».
Si fa abbastanza per prevenire la violenza di genere nella nostra regione?
«No, non si fa abbastanza. Né in Calabria, né in Italia. La prevenzione è una delle colonne portanti della Convenzione di Istanbul, così come le politiche integrate. Non solo non ci sono investimenti adeguati in prevenzione, né tantomeno per sostenere i soggetti (in primis i centri antiviolenza) che lavorano con le donne. Punto dolente è la formazione ad ampio spettro sui temi della violenza, diretta a una platea ampia e diversificata di soggetti. Il contrasto alla violenza di genere è un lavoro a tutto campo, che comprende uno spettro eterogeneo e vasto di azioni: interventi diretti per chi subisce violenza, attraverso i servizi sociali e sanitari; interventi di protezione e repressione, attraverso le Forze dell’Ordine e il sistema giudiziario; per non parlare poi dei necessari interventi di carattere culturale ed educativo che andrebbero implementati nelle scuole di ogni ordine e grado, per prevenire l’insorgere della violenza contrastando gli stereotipi di genere. Ma anche la formazione degli operatori e operatrici dell’informazione. Se mancano queste azioni integrate, messe in campo da soggetti competenti e non in maniera intermittente e volontaristica, il rischio è anche quello di riprodurre forme di vittimizzazione secondaria. In definitiva, in Calabria come altrove, è necessario un approccio sistemico al problema della violenza che consenta di progettare interventi di supporto e di prevenzione coerenti e non frammentati». (r.desanto@corrierecal.it)
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