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La figura di Gioacchino da Fiore, il monaco «noto ma non popolare»

Intervista al filosofo Andrea Tagliapietra. Entro il 2025 uscirà “Il Monaco che vinse l’Apocalisse” diretto da Jordan River

Pubblicato il: 03/11/2023 – 7:39
di Emiliano Morrone
La figura di Gioacchino da Fiore, il monaco «noto ma non popolare»

Il Monaco che vinse l’Apocalisse è un film che racconta la figura di Gioacchino da Fiore, vissuto fra il 1135 e il 1202. Diretto dal regista Jordan River e prodotto da Delta Star Pictures con il sostegno del ministero della Cultura, di Calabria Film Commission, Regione Lazio e altri enti, il lavoro uscirà entro il 2025, l’anno del Giubileo ordinario della Chiesa. L’opera rappresenta anzitutto il fondo umano dell’abate calabrese, come spiega il filosofo Andrea Tagliapietra, ordinario di Storia della filosofia nell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che ne ha guidato la scrittura insieme a River, alla storica del Medioevo Valeria De Fraja e alla scrittrice Michela Albanese. Si tratta di una sfida impegnativa e interessante. Infatti, Gioacchino non è popolare e, denuncia il filosofo contemporaneo, l’Italia continua a ignorare i propri giacimenti culturali, tra cui il pensiero di questo straordinario monaco calabrese. Con Tagliapietra oggi discutiamo delle grandi intuizioni di Gioacchino, con l’obiettivo di stimolare la curiosità e l’attenzione dei lettori del Corriere della Calabria e, più in generale, degli utenti digitali.
«Gioacchino da Fiore – premette l’intervistato – si mette in contatto con tutta una serie di elementi culturali che nella Calabria del suo secolo, il XII, si trovavano mescolati forse per caso, forse per destino. Mi riferisco alla cultura medievale latina ma anche a fermenti greci. Egli è in contatto con l’alterità del pensiero ebraico e del pensiero musulmano, in una pluralità di intrecci. Poi l’abate avvia una grande sperimentazione della vita monastica».

Professore, chi è Gioacchino da Fiore?

«È un fondatore di monasteri e di un ordine monastico, quello dei Florensi. Egli apre una stagione che poi sarà consolidata con gli ordini mendicanti che verranno di lì a poco, per esempio con san Francesco e san Domenico. Questa è la figura culturale di Gioacchino. Però, se noi dovessimo dire che cosa sappiamo di lui come uomo, ci sono poche cronache al riguardo, fatte da compagni del proprio gruppo più ristretto, poi tramandate. Sono perlopiù aneddoti, che ci restituiscono una figura piuttosto sfumata. Questo è il problema, quando si tratta di raccontare Gioacchino: portarlo da una dimensione di pensiero alla dimensione dell’uomo che è stato. È difficile riuscirci solo con i documenti disponibili. Tuttavia, mi ci sono dedicato aiutando l’impresa del film di River. In particolare, ho integrato elementi plausibili, tratti dalla conoscenza del pensiero di Gioacchino, del suo stile e della sua singolarità, con gli elementi storici sicuri, cioè il contesto, le autorità con cui egli entra in contatto: Costanza d’Altavilla, Enrico VI, i Papi che si succedono e altri protagonisti di allora. Ho cercato, in pratica, di ricostruire il fondo umano dell’abate calabrese».

Perché il film è intitolato “Il Monaco che vinse l’Apocalisse”?

«Il tema dell’Apocalisse è grandioso. L’Apocalisse è il pensiero che proiettiamo sul mondo della nostra fine, il che va al di là dell’elemento religioso, scritturistico eccetera. Gioacchino, partendo dal testo dell’Apocalisse, ha trasformato questa idea della fine in una grande richiesta di senso. Per lui la fine è un nuovo inizio. Questo è un tema clamoroso per il Medioevo, perché significa anche mettersi alla prova sulle cose più scontate di quel tempo: il ruolo del papa, il ruolo dell’imperatore, il ruolo degli Ordines, della società tripartita in laboratores, orantes e bellatores, cioè in coloro che lavorano, coloro che pregano e coloro che combattono. Un mondo senza stati, senza classi: questo sogna Gioacchino, inventandosi utopie concrete che trovano sperimento nei suoi monasteri, con una fusione nella natura. In Gioacchino, poi lo ritroveremo in Francesco d’Assisi, c’è il tentativo di connettere la storia con la natura; il che si vede in maniera evidente nelle sue figure, vere icone del pensiero che riescono a condensare in un’immagine ciò che la parola non riesce a dire, non può dire».

Anche Papa Bergoglio, riprendendo Francesco d’Assisi, guarda all’ambiente, tra i problemi principali della contemporaneità.

«È probabile che l’attuale pontefice, pur essendo un gesuita di formazione, abbia avuto un’influenza francescana e dunque gioachimita. Gioacchino introduce l’amore per la natura in una tradizione, quella ebraico-cristiana, piuttosto avversa al riconoscimento dell’animalità. Ricordiamo il dominio di Adamo sugli animali o pensiamo a quando l’arca di Noè tocca terra. Allora la voce dell’Altissimo ingiunge a Noè di cibarsi degli animali che sono con lui. Ora, evidentemente, la tradizione dei monoteismi, a differenza del buddismo e dell’induismo, non considera la continuità animale. A partire da Gioacchino si sviluppa l’idea, ripresa da Francesco d’Assisi e di recente da Papa Bergoglio, secondo cui gli esseri umani non si salvano, se non si prendono cura del mondo».

Gioacchino da Fiore è ancora poco conosciuto?

«È un autore noto ma non conosciuto. Le sue opere sono in genere prese a bocconcini e tra l’altro ne manca un’edizione moderna completa. Ho capito Gioacchino da Fiore dopo averlo studiato a fondo, già dalla mia tesi di dottorato, centrata sul suo pensiero. Mi permetto di aggiungere che sono stato il primo a tradurre per intero un’opera dell’abate, l’Enchiridion super Apocalypsim, in una lingua moderna. Da questo punto di vista, ho aperto un po’ la strada. Su Gioacchino possediamo pochi codici, quindi un’edizione critica delle opere non è agevole. Nel ’94 uscì con Feltrinelli la mia traduzione dell’Enchiridion, testo significativo perché Gioacchino da Fiore è una strana figura che sorge a metà tra il modo di pensare del pieno Medioevo e la grande stagione della scolastica, che anticipa l’autunno del Medioevo pieno di fermenti di modernità. In qualche modo, anche Gioacchino può essere ritenuto un fermento di modernità. Addirittura, uno dei suoi più grandi studiosi della prima generazione del Novecento, Ernesto Buonaiuti, prete modernista fra i 12 accademici che non giurarono fedeltà al fascismo, in una propria monografia collocò l’abate calabrese nella dimensione della Rinascenza italiana».

Una figura affascinante…

«Gioacchino si pone perfettamente all’interno della logica medievale del mondo, però la apre in maniera imprevedibile, sia nei rapporti politici, per esempio con il Papa e l’impero, sia per la visione della spiritualità, senza dubbio nuova. Questo è il fascino della mia collaborazione con Jordan River, nell’ambito della quale non mi sono occupato soltanto del dato storico, che è abbastanza esiguo, ma ho provato a ricostruire un fondo umano che comunque attraversa la storia e rimane tale e quale».

Viviamo in un tempo di crisi, internazionale, spirituale, ambientale, energetica, economica e politica. Quanto è attuale il pensiero di Gioacchino da Fiore?

«Gioacchino si innesta nella grande tradizione pacifista della cultura cristiana. Egli vede la storia come un drago rosso a sette teste, ciascuna delle quali è uno dei regnanti nel corso della storia, che procede. La coda del drago rappresenta proprio lo scontro finale. Il compito di Gioacchino è quello di indicare che le cose non si risolveranno se non predicando, o pregando, se si vuole, quindi parlando “magis quam proeliando”, cioè piuttosto che combattendo. Solo parlando, dunque, si riesce ad andare avanti nella storia. Il pensiero di Gioacchino è il pensiero di chi vede nell’immanenza la necessità di mettere alla prova il sogno desto del cristianesimo. Agostino rinvia la realizzazione della storia al di là della stessa, nel momento senza tempo dell’eterno, quando ci sarà il giudizio e finirà tutto. Per Gioacchino, invece, questo non basta. Come è possibile, dice Gioacchino, che la storia si risolva al di fuori di se stessa? Allora, può esistere un periodo finale in cui gli esseri umani si mettono alla prova e mostrano che possono realizzare qui e ora il bene. Questo è il millennio, la “terza età”».

Possiamo considerarlo un rovesciamento del neoplatonismo tipico della dottrina cattolica?

«Sì, senza dubbio. Gioacchino non è un pensatore platonicheggiante. A suo avviso, il futuro non è al di là del mondo ma è nel mondo. Cioè, bisogna realizzare l’ideale cristiano qui, sulla Terra. È questo lo scopo anche della costruzione di ordini nuovi che vengano incontro e che includano anche i laici. Difatti, con Gioacchino inizia un allentamento della distinzione degli ordini della società; in particolare tra coloro che si occupano “professionalmente” della scrittura e coloro che invece la leggono e la mettono in pratica. In ciò è stata vista un’anticipazione di elementi della riforma protestante. È evidente, se la mediazione della Scrittura è aperta a tutto il popolo cristiano e non soltanto ai ministri».

Tento una provocazione. Gioacchino può essere considerato, naturalmente con le opportune differenze, come una sorta di precursore del “pensiero debole”?

«La ringrazio per l’attenzione. A suo tempo il collegamento nacque da una lettura dell’appena uscito libro sull’Apocalisse di Gioacchino, curato da me. Il maestro Gianni Vattimo colse un elemento interpretativo che connetteva Gioacchino con la propria teoria del pensiero debole, fondata sul grande tema inaugurato da Karl Löwith in Significato e fine della storia e sull’idea di secolarizzazione moderna, cioè la secolarizzazione della visione teologica del mondo. Che cosa è la secolarizzazione? Significa che ciò che sta al di là – quindi, platonicamente, il mondo intelligibile – viene trascinato nell’al-di-qua, come succedeva durante la Rivoluzione francese con i beni della Chiesa, che venivano secolarizzati e dunque utilizzati dallo Stato. Questa secolarizzazione, senza dubbio, può essere un modo di leggere Gioacchino. Ma, in realtà, ciò che sostiene l’abate calabrese è l’inverso».

Cioè?

«Tutto sommato, quello che abbiamo visto nella secolarizzazione è un trascinamento passivo nell’immanenza delle cose spirituali. Gioachino voleva fare invece il percorso opposto: voleva spiritualizzare il tutto. Infondere la spiritualità nel tutto significa non accontentarsi che questo mondo sia a-spirituale e lo spirito sia sempre al di là. Per questo, ovviamente, bisogna fare qualcosa di molto più impegnativo che adeguarsi alla staticità dell’esistente come se fosse l’unico orizzonte possibile. Quindi, in qualche modo, la secolarizzazione esprime un effetto esteriore di quello che potrebbe essere il pensiero di Gioacchino, il quale invece voleva spiritualizzare. E spiritualizzare significa, appunto, acquisire una sapienza del mondo che in qualche modo ne colga la ricchezza nella sua semplicità. Quando Gioacchino scandisce le età del mondo come età della natura, al riguardo usando metafore vegetali, animali eccetera, in realtà sta cercando di mostrare un piano di immanenza, ricco di spirito, che l’abitudine di guardare nelle stelle fisse e nel cielo accecante del sole ci ha reso invisibile».

Allora emerge l’appello di Gioacchino all’immanenza?

«Sì, l’appello allo spirito che c’è nel mondo: il mondo non è male, il mondo è l’unico modo che ci è dato per redimere tutte le cose. Ciò è molto più impegnativo che ritirarsi dal mondo e stare lì ad aspettare. Per questo Gioacchino è così attivo: parla con l’imperatore, parla con il Papa, costruisce monasteri. In lui c’è la volontà di agire, di trasformare».

Professore, come mai oggi Gioacchino sembra difficile da comprendere?

«L’opera di Gioacchino è molto complessa ed è stata penalizzata dai rovesci della storia. I manoscritti sono rimasti pochi, in seguito all’avversione di alcune componenti della Chiesa durante il 1300. Lì, per varie ragioni, ci sono state questioni dogmatiche sulla Trinità, il che portò Gioacchino a non essere ritenuto perfettamente ortodosso rispetto alle dottrine della Chiesa, che tra l’altro non c’erano quando lui era in vita. Vi fu quasi una condanna a posteriori. Che cosa accade? La cosa più semplice che poteva succedere nel Medioevo: i codici non vengono copiati. Quindi, invece che esserci 100 manoscritti, ce n’erano dieci, poi cinque, poi quattro. Tuttavia, nel 1500, a Venezia, gli agostiniani veneziani indicono un’edizione a stampa, uscita tra il 1519 e il 1527. Codesta edizione ha permesso di accedere, in una versione ovviamente non filologica, ma senza dubbio già importante per capirne il pensiero, a tutta l’opera di Gioacchino; addirittura, anche a scritti apocrifi. Questa edizione viene poi ristampata, sempre nel Cinquecento, qualche decennio più tardi, a Basilea e diffusa in Europa. Quindi Gioacchino è stato conosciuto attraverso mezzi insufficienti».

E poi?

«Nell’Ottocento e nel Novecento, cioè negli ultimi due secoli, tutti si incaricano di fare edizioni di Gioacchino, però alla fine non le fa nessuno. Per esempio, prima della Seconda guerra mondiale, Buonaiuti ed Herbert Grundmann, grande medievista tedesco, si incontrano e decidono di spartirsi in un attimo i compiti per realizzare un’edizione delle opere di Gioacchino. L’ha vista lei l’edizione? Io non l’ho vista neanche, perché, appunto, Buonaiuti edita in maniera diplomatica due opere di Gioacchino: il Tractatus super quatuor Evangelia e poi il De articulis fidei. Grundmann fa qualche piccolo trattatello, ma le opere principali non vengono toccate».

A questo punto entra in gioco San Giovanni in Fiore?

«Sì. In tempi più recenti, il Centro internazionale di studi gioachimiti si è incaricato di colmare questa lacuna, lavorando per un’edizione completa con gli stessi problemi che avevano i nostri padri, cioè pochi manoscritti e quindi una certa difficoltà nel preparare l’opera. Ciò anche perché il latino di Gioacchino è una lingua, diciamo, non trasparente. Ancora, il pensiero dell’abate è complesso perché, paradossalmente, ha una sua potenza quasi geometrica. In Gioacchino c’è già un tentativo di andare oltre il pensiero meramente esegetico, cioè interpretativo, perché l’abate costruisce continui parallelismi simbolici che creano una vera e propria geometria spiritualis, o “arithmetica spiritualis”, come la chiama Gioacchino. Quindi c’è una rigorosità di altro tipo rispetto al rigore more geometrico che verrà poi adottata dal pensiero ulteriormente avanti. Allora è richiesto un approccio piuttosto attento a queste corrispondenze. Da qui deriva la difficoltà di Gioacchino».

L’abate calabrese semplifica i concetti e anticipa accorgimenti della comunicazione digitale di oggi?

«Possiamo dire di sì, in un certo senso. Si pensi all’enorme difficoltà di pensare il Dio uno e trino. Gioacchino la risolve molto semplicemente, facendo l’esempio della musica. Quando noi sentiamo delle note in accordo, sentiamo un’unica musica. Ora, questo è il potere del simbolo, il potere della metafora, il potere della sensibilità. Questo è, appunto, il modo con cui Gioacchino, a differenza dei grandi filosofi che verranno dopo, ci dà un’immagine icastica della Trinità, che rimane efficace perché fa leva su qualcosa come l’esperienza uditiva, che in qualche modo ci consente di immaginare la coesistenza dell’uno e del tre più di qualsiasi tentativo del pensiero logico».

L’anno scorso in particolare si è parlato abbastanza del rapporto tra Dante e Gioacchino. Qual è il suo punto di vista nel merito?

«Dante inserisce Gioacchino nel grande affresco della Commedia, avendo come canale di contatto i francescani spirituali, che portano il pensiero gioachimita della visionarietà. Infatti, la terzina del Paradiso che evoca Gioacchino è centrata sullo spirito profetico. Ancora, i giri della luce, la rappresentazione della candida rosa e altre immagini sono in buona parte di ascendenza gioachimita. Gioacchino ha la grandiosa efficacia di aver evocato dei simboli ricostruiti proprio come appercezione sintetica del significato, attraverso un emblema visivo o uditivo, come dicevamo prima. Quindi, da questo punto di vista, Dante intercetta la capacità di Gioacchino di mostrare l’invisibile, la luce. Alcuni sostengono che Dante possa aver avuto accesso a uno dei manoscritti del Liber Figurarum. Questo volume è un’antologia, chiamiamola così, una raccolta di immagini delle opere di Gioacchino che probabilmente qualche suo allievo prepara subito dopo la morte dell’abate. Il Liber Figurarum è grandioso, ce ne sono solo tre esemplari: uno a Reggio Emilia, uno a Dresda, l’altro a Oxford. Questi tre esemplari ci mostrano immagini che si vedono con gli occhi e allo stesso tempo con la mente, che hanno una capacità poderosa».

Oggi Gioachino paga, dal punto di vista culturale, la sua provenienza dalla Calabria? La Calabria ha due elementi: è spesso famosa per la ’ndrangheta ed è forse ancora troppo chiusa nella sua dimensione isolata. Lei che impressione ha?

«Nella sua epoca, Gioacchino trasse vantaggio dall’essere calabrese. La Calabria era un ponte tra la cultura greca, la cultura araba e la cultura latina. Il contrasto tra il mare, il sole e le alture della Sila, piena di ascosi boschi di pini loricati, non esiste altrove, in Europa. Potremmo dire terra e mare che si toccano e si sfiorano; potremmo ricordare il fascino dello shock che arriva quando si sale dalla costa verso Camigliatello e la Sila. Allora fu un vantaggio, per Gioacchino: lì la storia si svolgeva; si pensi a Federico II, a Enrico VI eccetera. Il centro della storia era tra la Sicilia, Roma e Gerusalemme. Oggi la marginalità può essere intesa in tanti modi, ma è una marginalità che la Calabria condivide con l’Italia. Questa marginalità è perché l’Italia non ha purtroppo cognizione del proprio valore. È come se noi avessimo delle miniere d’oro e non lo togliessimo perché andiamo a cercare il piombo da qualche altra parte».

Dove stanno le responsabilità?

«L’Italia è il luogo in cui una classe politica indegna continua a negare questo fatto e anche una classe, purtroppo, universitaria. Negli ultimi decenni si registra uno spostamento dell’attenzione verso il ruolo culturale dell’università a vantaggio di un ruolo puramente esecutivo, di tipo propedeutico alle professioni. Questo ruolo innaturale è stato voluto, sia in Italia che in Europa, da interessi e persone che non hanno in alcun conto la cultura. Ora, in un Paese che ha giacimenti culturali come l’Italia, e ne è un esempio l’opera di Gioacchino, basterebbe che mezzo muscolo del presidente della Repubblica si muovesse, per destinare risorse a un’edizione delle opere dell’abate. No, invece no. L’Italia ha disconosciuto la sua grande tradizione culturale e continua a disconoscerla, limitando, balbettando, cercando di imitare modelli che sono fatti da realtà che hanno infinitamente meno cultura e quindi si arrangiano come possono. Imitare il peggio, quando si ha il meglio, è la dimostrazione di un’imbecillità che però si ripete. Speriamo che prima o poi ci sia un cambiamento».

Che cosa può allora significare il film di River su Gioacchino?

«Che si faccia è una gran cosa, perché porterà attenzione verso un autore che non è secondo a Giordano Bruno. Nel caso di Bruno, dopo un film biografico diffuso in Italia e nel mondo, c’è stato un interesse fortissimo per questo autore, che nella sua epoca è di grandezza almeno pari ai grandi pensatori dell’Europa centrale. Prima del film, Bruno non aveva la stessa attenzione. Mi auguro che il film di River possa attirare l’interesse su Gioacchino, che è un autore fondamentale per ribadire l’alternativa del pensiero italiano. Se riflettiamo sulla differenza della cultura filosofica italiana rispetto alla tradizione francese, tedesca o inglese, uno degli elementi fondamentali che affiora ricorrentemente, si pensi a Vico, è l’interesse per la storia, non già come raccolta di documenti ma come origine del pensiero, come luogo in cui ci si forma per capire non il passato, ma il presente e il futuro».

Gioacchino, insomma, come antidoto alla tentazione dell’antistoricismo dell’era digitale, dell’interpretazione dei dati da parte delle macchine dell’Industria 4.0?

«La storia, giova ripetere, serve a capire il presente e il futuro. E la storia è al centro della riflessione di Gioacchino, che, anche se scrive in latino, è il primo pensatore italiano, cioè inaugura la tradizione della cultura e del pensiero italiano che va in quella direzione, e che poi avrà traduzioni diverse, con Giambattista Vico, con Benedetto Croce eccetera. Ma questa dedicazione alla storia, questo inserirsi nella storia è una conquista che Gioacchino ci lascia, oltre a un pensiero che non si rinchiude negli stereotipi dell’intellettualismo ma cerca continuamente, nei limiti di un’opera medievale, il confronto con il mondo». (redazione@corrierecal.it)

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