Un ragazzone che ricorda vagamente Enzo Jannacci, genialità multiforme, cervello che impasta versi multilingue ed emette parole mai scontate. Daniel Cundari ha fondato la Piccola Biblioteca di Cuti, enclave celebre (e celebrata) per il pane, a Rogliano, per donarla ai giovani della sua comunità. Poeta, autore per il teatro, scrittore e saggista, ha da qualche tempo lasciato la Calabria per Valencia, dove lavora come cuoco in un teatro d’avanguardia. Tra le sue collaborazioni artistiche si segnalano quelle con Gianna Nannini, Alfio Antico, Juan de Loxa, Juan Carlos Friebe, Peppe Servillo o Jeremie Corault. Il 9 novembre interpreterà i suoi testi al Palazzo Reale di Napoli, al Festival della Poesia del Mediterraneo organizzato dall’Instituto Cervantes.
• CHI È Daniel Cundari
Poeta e performer plurilingue, Cundari (nella foto in alto nel CCCC, Centro de Cultura Contemporánea del Carmen) è Premio Lerici Pea per essersi distinto nella valorizzazione della lingua, della cultura e del territorio della sua terra, Pericle d’Oro, Metastasio, Roublikon, Ischitella e Genil de Literatura in Spagna. Si è esibito, tra gli altri, per la Società Dante Alighieri, l’Ente Boccaccio, l’Accademia Mondiale della Poesia, l’Istituto Cubano del Libro, l’Instituto Cervantes, il Ministero serbo, la Casa della Cultura di Chiguayante, la Casa del escritor di Quintana Roo, il Salone Internazionale del Libro di Torino, il Salone del Gusto, il Teatro Palladium, il Teatro Koz di Città del Messico, il Teatro Rendano, il Teatro Cilea, l’Ars Poetica di Bratislava, le Università di Barcellona, Roma, Unical, Magna Grecia, Cassino e del Lazio meridionale, Granada, Venezia. Tra i suoi libri di poesia, narrativa e teatro, ricordiamo “Poesie contro me stesso”, “Nell’incendio e oltre”, “Il silenzio dopo l’amore” o “Istruzioni per distruggere il vento”.
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Il primo vero distacco risale agli anni universitari, quando scelsi la città di Siena per studiare le letterature e il diritto internazionale. Ho vissuto a Roma, nel rione San Lorenzo, a Granada, il luogo che ha segnato di più il mio lato umano e artistico, a Shanghai, dove smontavo e rimontavo orologi per una multinazionale, nel Messico caraibico come esperto nel campo dei distillati, in Polonia, nella bellissima Gdansk, e a Barcellona da commerciale nell’enogastronomia. Nella città di Gaudì ho venduto elettrodomestici al mattino, per poi frequentare poeti, scrittori e pittori all’imbrunire. Ora mi trovo a Valencia, dove lavoro come cuoco in un teatro d’avanguardia. Nella cucina porto il marchio indelebile della mia terra e quel senso di nuovo che mi hanno trasmesso i racconti di Manuel Vazquez Montalban. Nonostante questo infinito peregrinare, mantengo un forte radicamento alla Calabria, avendo organizzato centinaia di incontri culturali di qualità, partecipato in modo attivo alla vita politica da indipendente, aperto e gestito due locali e fondato una biblioteca per la mia comunità ormai nota in tutto il mondo. Sovente devo fuggire per poter restare e riesco a rimanere solo se mosso dal desiderio di scappare. I perché del distacco e dell’abbandono sarebbero troppi da elencare. Potrei parlarne per giorni. La Calabria mi ha ucciso varie volte, il mondo editoriale continua a censurarmi, quello amministrativo a ignorarmi. È la legge dell’esistenza a queste latitudini, una malattia endemica improbabile da sterminare. Ma io sono uno che ci crede in modo dannato, uno che vuole sempre cambiare le cose in meglio, con più libertà e meno imbecillità.
Rimpiange o le manca qualcosa?
«Il rimpianto è un sentimento che non mi appartiene. Sono invaso da una nostalgia del momento, nell’accezione greca del termine. Nostalgia verso il futuro, che contempla una partenza e un ritorno. Nel Mediterraneo occorrerebbe tralasciare le aspettative, poiché le secolari abitudini dei suoi abitanti operano o, meglio, oziano per disattenderle. Mai come oggi, chi si impegna per il bene comune è solo. Nell’epoca dell’immagine, della condivisione sociale e della vita virtuale, chi lavora nel solco dei processi a lungo termine è reietto, relegato ai margini e all’abbandono. La natura dell’uomo è cinica e alimentata dall’interesse. Persino l’amicizia è minacciata e viziata dal successo e si tende a gettare oltre la siepe, nel baratro, chi costruisce tra le intemperie, nei fallimenti e sulle sconfitte. L’obiettivo si raggiunge in perfetta solitudine, nessuno tende la mano per aiutarti durante il processo di costruzione, ma alla fine tutti si avvicinano una volta completato e ottenuto il risultato. Per vivere in alcuni luoghi serve un cuore corazza oppure un cuore troppo cantastorie come quello di Franco Costabile».
Cosa salva della Calabria?
«Le nonne, i nonni, le madri e i padri, che definiscono la nostra terra con la loro dignità. E i mari, le montagne e qualche momento di ferocissima gioia. Non salvo di certo me stesso, in quanto se mi salvassi non amerei, non sognerei, non sbaglierei, non vivrei.
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«Valencia è una città fantastica, verdissima, calda e marittima. Tra le più vivibili al mondo. Ho la possibilità di incontrare in pochi minuti grandi artisti o intellettuali per condividere un bicchiere di Bobal».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«Conosco pochi calabresi residenti, per fortuna, ma quelli che frequento hanno delle menti brillanti e colme di fascino. Pochi giorni fa ho conversato con Domenico Codispoti, un pianista prodigioso di Catanzaro. Davvero una bella persona. E, a dispetto degli impegni, cerco di ritagliare del tempo per incontrare Gino Zingone, un caro amico di Cosenza che qua è un rinomato chirurgo. Preferisco i tête-à-tête, i “core-a-core”, gli appuntamenti a due: superato quel numero rischieremmo l’associazione a delinquere per via delle nostre origini» (ride).
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«La debolezza. Essendo i peggiori in tutte le classifiche non possono che migliorare. Cucinano molto bene e sono generosi. Oggi si utilizzerebbe l’espressione “multitasking”. Quanto a me, subisco l’onta di un mondo alla deriva, in cui la rovina di tutto ha fatto storia. Pur essendo adesso un cuoco in un teatro, non dico mai agli allievi che in realtà sono un’artista solo quando svuoto la lavastoviglie, né racconto il mio vissuto o ciò che inquieta la mia fantasia creativa. Così come in pochi sanno che dipingo. Tutti noi sappiamo relativamente poco della vita degli uomini, chi siamo e cosa facciamo. A volte bisogna restare dietro le quinte, ascoltare, imparare a masticare il veleno amaro del silenzio. Mettere da parte il protagonismo e lasciare la scena al teatro circostante. Per un vitalista come me partire significa entrare in ritiro spirituale per eliminare alcune tossicità accumulate nel caos calabro».
Ci sono, al contrario, degli stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«Gli stereotipi appartengono a coloro i quali non hanno viaggiato o che non hanno mai valicato lo steccato di casa. A chi non sa ascoltare. A chi non legge e pensa che il libro sia un oggetto obsoleto, inutile e perverso. Invece la partita si gioca proprio qui, nel cuore del cuore del linguaggio. La sintassi è una facoltà dell’anima e sotto questo aspetto l’Italia è ferma all’età della pietra. Il resto è apertura, curiosità e innamoramento. Inviterei chi è più giovane a nutrirsi di Corrado Alvaro e Danilo Dolci, ad esempio».
Tornerà in Calabria?
«Non mi sono mai mosso e non escludo il ritorno. Ogni volta che lo faccio me ne sono già andato».
x
x