Mentre le schermaglie politiche si susseguono, senza trovare un punto d’incontro che lasci presagire un accordo tra imprese e lavoratori su come consentire alle famiglie monoreddito di vivere decentemente, si decide di aumentare il prezzo dei prodotti di prima necessità. E non importa che per molte famiglie monoreddito è come mostrare loro “la canna del gas” considerato che possono contare su retribuzioni che non aiutano ma, al contrario, producono danni tanto da non riuscire, soprattutto al Sud, ad assicurare il pranzo e la cena.
Per tentare di raggiungere un po’ di serenità i nuclei familiari, costretti ad assistere impotenti al progressivo alleggerimento del potere d’acquisto dello stipendio (spesso unico introito in famiglia), continuano a chiedere al datore di lavoro che si concordi la revisione delle norme contrattuali. Ma la risposta è sempre la stessa: il contratto è quello concordato! È, però, altrettanto vero che i “rinnovi” vanno sempre ad aggiungere, mai a diminuire, a meno che, come accade, non si “scovano” contrattazioni che producono realtà più vicine all’indigenza piuttosto che ad assicurare sostegno. Ciò accade quando l’inflazione galoppa e riduce gli stipendi ad un compenso mensile sempre più misero. Naturalmente non si può fare di tutta l’erba un fascio: c’è chi, grazie alla remunerazione concordata, riesce a vivere dignitosamente e chi, invece, deve sperare che qualcosa cambi nel futuro prossimo.
Così è per la stragrande maggioranza di lavoratori (tranne che per i dirigenti) spesso anche a parità di titolo di studio. Tanto la capacità professionale si considera in base al “grado” della raccomandazione.
E dire che non dispiace una scala di funzionari che sappiano dirigere realmente il lavoro. Ciò che, invece, lascia pensare e può produrre una sorta di criticità è quando ci si imbatte nell’impreparazione di soggetti che, pur occupando livelli di responsabilità, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista remunerativo, non riescono a “rendere” per quanto ricevono.
Adesso che si parla di “pensioni falcidiate” (2,2 miliardi in meno agli statali) sarà una mannaia per tutti, tranne che per una categoria: i Parlamentari. Ciascun deputato percepisce 3.690 euro di diaria mensile, altre 3.690 per rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, 3.323,70 euro annui per i trasferimenti dall’abitazione all’aeroporto e 1.200 euro (sempre annuali) come rimborso forfettario per le spese telefoniche.
Anche i senatori navigano nelle stesse “acque”. Ad agni fine mese ciascuno di loro incassa, al netto delle ritenute fiscali e dei contributi obbligatori per il trattamento previdenziale e per l’assistenza sanitaria, 5.304,89 euro. A questo vanno aggiunte le spese per recarsi in aeroporto e quelle telefoniche. Nessuno ha però mai pensato di tagliare una parte anche minima di queste cifre per aggiungerla alle retribuzioni di quei lavoratori, costretti a vivere con stipendi da fame, che continuano a sperare negli emendamenti perché si possa stabilire equità nel Paese. E ciò segnerebbe civiltà e progresso, altro che “complotto” sui conti pubblici come si lascia credere. La verità è che il mondo del lavoro spera, perché ha bisogno, in un Governo che si ponga anche il problema del mondo del lavoro, governando degnamente. Altro che “premierati”.
*giornalista
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