TORINO Una mafia «silente, mimetica e unitaria» quella scovata e disarticolata attraverso l’inchiesta “Minotauro” che, a giugno 2011, portò a 156 arresti nel Nord Ovest del Paese, in Piemonte e a Torino. A firmare quell’ordinanza fu il gip, Silvia Salvadori, in prima linea contro le cosche di ‘ndrangheta e già all’epoca sotto protezione. Ma è adesso, grazie ai verbali depositati dalla Procura generale di Milano nell’inchiesta sull’assassinio del procuratore di Torino, Bruno Caccia, che il quadro è più chiaro. Ma anche più preoccupante.
Già perché è la stessa giudice, oggi in forza alla Procura generale di Cassazione a Roma – come scrive Giuseppe Legato su “La Stampa” – a raccontare le allerte sulla sua sicurezza generate da quell’inchiesta storica che disarticolò 9 locali di ‘ndrangheta. «Un episodio – racconta a verbale Salvadori al procuratore generale di Milano Galileo Proietto – che in concreto delineava una situazione di pericolo nei miei confronti fu la notizia pervenuta da fonte confidenziale che nel carcere di Saluzzo, era stata raccolta un’informazione secondo cui stavano progettando un attentato nei miei confronti. In Calabria erano pervenute notizie di sequestri di esplosivi di cui io sarei stata la destinataria».
«Questa volta alla dottoressa è andata bene». Questa la sibillina minaccia – con un marcato accento calabrese – in una telefonata arrivata in cancelleria nel 2012. «Ricordo che camminavo per strada a piedi in piazza Vittorio, nelle cui vicinanze vivevo, con gli agenti di scorta. La mia protezione notò che ci stava seguendo un personaggio che a un certo punto si girò verso di me ed ebbe un atteggiamento aggressivo, si voltò di scatto guadandomi fisso negli occhi e con un sorriso provocatorio. C’era ancora un altro uomo che seguiva me e la scorta e sembrava agisse in sintonia col primo. Mi creò molto allarme. In quell’occasione fui letteralmente presa e spinta nella macchina blindata dalla mia tutela». E anche se non sono mai tate sollevate contestazioni penali – scrive ancora La Stampa – alcune «ricordo che dopo l’emissione delle misure cautelari, l’avvocato di Francesco D’Onofrio (considerato un elemento di primissimo livello delle cosche a Torino) si recò direttamente dal mio presidente dell’epoca Francesco Gianfrotta a lamentarsi per la mia indisponibilità a una modifica (carcere versus domiciliari ndr) della misura cautelare. Le lamentele riguardavano comunque in generale la mia eccessiva severità nella conduzione del procedimento». Nel frattempo, il livello di protezione dalla giudice Salvadori scese al terzo livello, fino alla sospensione della tutela e poi riassegnata dopo la firma di un’altra pesante inchiesta ovvero “Geenna” che si concentrò sulle ‘ndrine che avrebbero occupati pezzi di Valle d’Aosta. (redazione@corrierecal.it)
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