Giuliano Compagno è un importante scrittore italiano, un drammaturgo apprezzato, un intellettuale libero e scomodo. Allievo del filosofo Mario Perniola, ha lavorato nell’università di Roma “Tor Vergata” e dedicato studi approfonditi a Georges Bataille, Pierre Klossowski, Pierre Drieu La Rochelle e Georges Perec. Compagno ha pubblicato numerosi libri, saggi e testi di spessore su diversi argomenti, distinguendosi per l’originalità e la profondità della sua ricerca sull’uomo in rapporto al tempo e allo spazio. Con lui, cui diamo del Tu per via di un datato rapporto personale, oggi parliamo del futuro della Calabria, in cui la spinta culturale, sociale e morale degli intellettuali sembra essere ostacolata da una dominante mentalità opportunistica, dall’incapacità diffusa di puntare sulle risorse culturali di cui la regione dispone.
Sul Corriere della Calabria avevamo di recente ripreso il saggio “Calabria, l’Italia estrema”, firmato dall’economista Domenico Cersosimo. Al riguardo, avevamo osservato che ogni progetto di sviluppo culturale, economico e sociale si scontra in Calabria con un elemento di realtà: nella regione manca molte volte il soggetto capace di incidere nel territorio e, secondo la mentalità dominante, è meglio coltivare il proprio orticello con qualche misura d’assistenza, nell’attesa che esca il posto fisso. Qual è la tua opinione da intellettuale, da osservatore esterno?
«Anzitutto posso dare il mio punto di vista quale figlio di meridionali. Vengo da una regione limitrofa, la Sicilia, e conosco la Calabria. La mia impressione è che la mancanza del soggetto sia una realtà grave che appartiene alla Calabria come, in generale, al Centro-Sud. Anche a Roma i soggetti vengono improvvisamente a mancare, scompaiono. Ciò accade perché non conviene essere soggetti nelle realtà difficili e chiuse sul piano culturale. Essere soggetti significa essere vivi e significa essere degli interlocutori reali: del potere, della cultura e della società. Nascondersi dalla propria soggettività significa, allora, ripararsi nei confronti del proprio territorio e quindi annullarlo, non tanto meschinamente ma con un certo cinismo».
C’è molta discrepanza tra ciò che la Calabria è stata – spesso viene ricordata come la terra di Pitagora, della Magna Grecia, delle grandi utopie di Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella – e quella che oggi è, ossia una regione problematica con una criminalità organizzata pervasiva, un’amministrazione pubblica macchinosa e uno spopolamento crescente, molto legato all’asfissia della cultura. Come vedi questa contraddizione molto forte?
«Ho diversi amici greci che sono liberi professionisti e di gran cultura. Quando pensano alla Grecia italiana, costoro pensano alla Sicilia, non alla Calabria. È un fatto reale che fa riflettere, per cui ne traggo che esista qualche carenza. È un problema di comunicazione o si tratta di un’altra forma di nascondimento? A me pare che da un lato in Calabria vi sia questa difficoltà, dall’altro che lì ci siano personaggi che svolgono un lavoro importante e faticoso per stimolare dibattito e aggregazione, per produrre cultura e cambiare la realtà».
Per esempio?
«Penso al direttore del museo archeologico di Sibari, cioè Filippo Demma, uno che sta facendo un lavoro enorme. Sono andato a vedere quel museo, che è di una modernità straordinaria: non il classico luogo stantio, quello che ti aspetteresti, ma una struttura incistata nel territorio in modo fortissimo e con validissimi collaboratori. Penso, nel merito, a Donatella Novellis, studiosa importante e affermata. Insomma, c’è un grande contributo da parte di studiosi e di intellettuali in questo settore, che non riesce a uscire fuori di sé perché non viene aiutato dalle istituzioni e da chi si occupa di turismo. Questo è gravissimo. Per esempio Sibari, che ho visitato da poco, è una terra quasi commovente, meravigliosa. Strano, però, che i turisti e i greci non riescano a sapere che la Calabria possiede una ricchezza archeologica fondamentale, legata alla grecità e alla cultura greca».
Questo dipende da come la Calabria si racconta, per esempio dal fatto che la narrazione interna dominante è quella di una regione in ginocchio, bisognosa di assistenza, d’aiuto, di sussidi, sostegni, provvidenze? Ciò ha anche da fare con la mentalità locale, che in tempi più recenti ha impedito che in Calabria ci fossero, per tornare al tuo discorso sulla Sicilia, figure come Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Franco Battiato?
«Sì, è vero che in Calabria non ci sono, per certi versi, degli analoghi. Tuttavia, anche nella sua storia più recente, la Calabria può vantare figure di elevato spessore intellettuale. Penso a Leonida Repaci, a Mauro Francesco Minervino, a Corrado Alvaro, naturalmente, ad Ada Murolo. Ma mi riferisco anche ad altri, magari poco noti, letterati, artisti, pensatori, spuntati da una sorta di deserto ma con una voce, con una forza eterogenea evidenti. Si tratta di persone rimaste nel loro territorio, che hanno fatto una fatica enorme per farsi conoscere».
Allora, qual è il tema?
«C’è un’emigrazione calabrese verso il resto d’Italia, che è attiva e continua. Io vivo a Roma, dove interi quartieri sono abitati, occupati e vissuti da comunità calabresi vastissime. Sono comunità di studenti che frequentano l’università, con profitto in ogni materia. Sono studenti che in seguito sono diventati professionisti, medici, ingegneri, avvocati di successo. Quindi c’è una grande emigrazione studentesca ormai da 50 anni. Molti non sono mai più ritornati nei luoghi d’origine. La perdita è secca».
Questo fenomeno ha interessato anche diversi artisti calabresi.
«Quando conobbi la realtà di Cosenza, mi resi conto che essa aveva espresso un grande numero di artisti, di teatranti, di attori, di registi, di pittori eccetera. Penso al genio teatrale di Giancarlo Cauteruccio, penso al talento artistico di Alfredo Pirri e a tanti altri artisti calabresi che vivevano a Parigi o che si erano spostati, come Giancarlo, a Firenze, dato che Roma era una meta o troppo intasata o già abusata sul piano teatrale. Insomma, che cosa è successo? È successo che si è affermata una grande realtà, diciamo, di esodo artistico. Poi ci sono quelli che sono rimasti in Calabria, in una condizione di dolore e di attivismo, come nel tuo caso. Ed è incredibile che un caso come il tuo non abbia suscitato all’interno della tua regione, che evidentemente adori, il desiderio di tenerti in un rapporto stretto».
Ti ringrazio, ma sono un semplice giornalista. Credo d’aver colto, però, il senso della tua critica, che è un po’ il discorso del nemo propheta in patria.
«Non solo. Il problema, che è tutto italiano e non esclusivamente calabrese, è che la cultura si comporta come se avesse bisogno della politica e non ha la forza di imporsi. È la politica che deve chiedere alla cultura, non il contrario. Faccio un esempio. Pietrangelo Buttafuoco è una delle figure storicamente afferita alla destra, a partire dalla quale ha continuato il suo cammino non conforme, autonomo, di studio, di grande letteratura, di eccellente teatro. Di recente, è stato designato alla presidenza della Biennale di Venezia e ha quindi ottenuto un meritato riconoscimento per la sua attività quarantennale molto seria. Buttafuoco pratica la cultura e l’eresia, non è una figura politica. Eppure, alla notizia dell’incarico, qualcuno, senza capire realmente che cosa stesse commentando, ha finito per sminuire una grande nomina culturale con un pessimo commento politico. Ecco, questo è l’esempio dell’abitudine che domina in Italia, cioè di considerare la cultura sottoposta alla politica e non viceversa. D’altra parte, Buttafuoco non ha replicato, e si è confermato molto fine e molto intelligente».
La scarsa attenzione per le risorse culturali – parlavi prima della vicenda del museo di Sibari – dipende dal fatto che, soprattutto nel Sud, la politica si è convinta che la cultura non serva e che sia meglio allargare il consenso con promesse populistiche?
«Quasi mai la politica considera suoi interlocutori gli uomini di cultura; si preoccupa invece di come alimentare il proprio consenso elettorale. È un vecchio male, soprattutto del Mezzogiorno e, forse, in particolare, della Calabria. Spesso la politica ha in testa solo chi può portare voti e non gliene importa un fico secco dei giovani, del futuro, di costruire opportunità partendo dalle risorse culturali e intellettuali. Fino agli anni ‘90, quando la politica aveva un altro livello, la cultura era pensata e giudicata con attenzione. Oggi assistiamo a un declino progressivo. Come si fa a non chiedere a Franco Cardini di intervenire su argomenti di grande delicatezza? Com’è possibile che Massimo Cacciari sia finito in televisione permanentemente? Certo, la tv lo paga, quindi conviene anche a lui. In ogni caso, è una perdita enorme. Non c’è una via di mezzo, per esempio, tra un libro alto come “Krisis”, a uso e consumo di filosofi di un certo livello, e il caos dei commenti e dei dibattiti televisivi? Come riesce Cacciari a dialogare con Di Battista o con Capezzone? Il rapporto fra politica e cultura è diventato molto malato».
Questo che cosa comporta?
«È un po’ la divinazione di Indro Montanelli: “l’Italia non ha alcun futuro, gli italiani sì”. La scissione tra italiani e Italia è enorme; la scissione tra calabresi e Calabria è tuttora enorme, perché il calabrese in Italia e all’estero è attivo e stimato nei campi della cultura, delle arti, delle professioni e delle competenze. L’ultimo tema da toccare è quello della competenza. In che modo essa viene considerata dalla politica? In Italia la competenza, un tempo ascritta alla media borghesia, è stata massacrata, distrutta dalla politica».
Torniamo alla Calabria. A proposito di marginalizzazione della competenza, ti viene in mente qualche caso?
«In occasione della tragedia di Steccato di Cutro, il cosentino Giancarlo Cauteruccio, nome importante dell’avanguardia teatrale del Novecento, ha riunito attorno a sé gli artisti calabresi, che spesso tendono a dividersi, a non collaborare. Non solo, Cauteruccio si era reso disponibile per progetti di teatro e di formazione all’interno dei Comuni, per interventi culturali nei borghi calabresi. Purtroppo, in Calabria è stato sinora un po’ trascurato. Questo dipende dal fatto che uno come lui non è in genere riconosciuto, compreso dalla politica, che ai progetti di lungo respiro tende a preferire gli spettacoli di una serata con la presenza fugace di star della tv. È triste, eppure Giancarlo continua a proporsi con grande generosità alla sua terra, che ama molto. Spero che presto ci siano amministratori che comprendano che voltare le spalle a un Cauteruccio significa sprecare uno scrigno pieno di gioielli. Speriamo che lo stesso sia per te, che da decenni ti dedichi alla Calabria con tutta la tua buona fede e tutta la tua capacità di restare sull’attualità in un modo formidabile».
Ci proviamo, sempre con umiltà e a prescindere da tutto. In una recente intervista al Corriere della Calabria, il filosofo Andrea Tagliapietra ha detto che anche la classe universitaria, come quella politica, ignora i giacimenti culturali dell’Italia. Come se ne può uscire? Come, secondo te, in un sistema governato dal marketing politico e culturale, si potrà recuperare il terreno perduto?
«Non è molto facile. In passato erano nate figure di straordinaria eccellenza, figlie di maestri veri, indiscutibili e fantastici, prima che di professori ordinari. Luigi Pareyson a Torino e Luciano Anceschi a Bologna avevano covato nidiate di eccellenze. Pensiamo che Pareyson aveva in un certo periodo questi cinque allievi, in ordine cronologico: Umberto Eco, Gianni Vattimo, Mario Perniola, Sergio Givone e Gianni Carchia. Questi cinque allievi sono diventati a loro volta non già dei maestri, ma delle star della filosofia e della cultura, senza alcun tipo di sottovalutazione di quello star system da parte mia. Mario Perniola è stato il mio maestro per 35 anni. Questi filosofi hanno segnato un periodo di dominio dell’Estetica, si sono trovati a vivere in un periodo pieno di convegni e di meravigliose occasioni d’incontro. Tu potevi andare in Italia e seguire convegni cui partecipavano Vattimo, Derrida e Baudrillard, e poi in un’altra parte c’era Perniola che parlava con Vernant, con Augé e così via. Peraltro, questi filosofi, allora vere e proprie star, si sono dimenticati di formare un magistero. Non è un caso che essi non abbiano lasciato alcuna eccellenza indimenticabile. Nel mio caso, propendevo per la scrittura, Perniola se ne accorse subito e non mi lasciò ugualmente andare. Dunque, a partire dalla fine anni degli ‘90, è iniziato il vuoto che ancora esiste. L’accademia va sparendo, il che mi sembra abbastanza inevitabile».
Qual è il tuo auspicio per la Calabria?
«Che venga fuori un condottiero capace di invertire la tendenza, di mettere al centro le risorse più importanti; di sconfiggere le logiche del clientelismo, dell’assistenzialismo e dell’opportunismo; di costruire il futuro partendo dall’amore per il sapere, dal coinvolgimento degli intellettuali e degli artisti, dal coraggio di scommettere sulle intelligenze della regione e sui suoi giacimenti culturali. Se già ce n’è uno, batta un colpo, si candidi e vada a vincere. L’unico auspicio è questo, che emerga un condottiero».
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