COSENZA La rivolta degli asinelli è scattata a mezzogiorno. Qualcuno ha distrattamente lasciato la porta della stalla aperta e loro sono scappati, uno dopo l’altro, liberi di conquistare nuovi spazi, di vagare tra i corridoi delle serre, travolgendo i filari di pomodori. Adesso si godono il prato e l’erba e se non ci fosse la suggestione della fattoria di Orwell non sarebbe così facile pensare a una metafora.
«La libertà ha un prezzo, oggi tocca a noi rimediare a questo danno. Vale per gli asini ma anche per gli umani». Sorride sotto la sua lunga barba da guru Alessandro Scazziota e intanto riassetta l’orto, raccoglie i pomodori caduti a terra, sistema gli steccati che gli asini hanno danneggiato. Se vuoi parlare con lui devi accettare di seguirlo prima sul trattore, poi sul camion. Rincorrerlo mentre riporta gli animali nella stalla e infine ritrovarti a guardare il bosco davanti a un caffè, ragionando sulla vita. La fattoria sociale e didattica gestita dalla cooperativa Arca di Noè, una parentesi rurale a pochi minuti dal centro di Cosenza, più che una scommessa è un’utopia. Ha messo giovani con disabilità a coltivare la terra, raccogliere gli ortaggi, pulire, accudire gli animali, sistemare frutta e verdura nelle cassette e consegnarle a domicilio, perché la cooperativa si autofinanzia. Poi ci sono i laboratori di ceramica, di teatro, di musica. Ognuno è parte di un meccanismo in cui ogni singolo si prende cura dell’altro e allo stesso tempo rinforza la sua autonomia personale e l’autodeterminazione.
«Proseguiamo un percorso insieme – spiega Scazziota –, è un accompagnarsi come membri di una comunità. Proviamo a fare un pezzo di strada tenendoci per mano, trovando equilibri di convivenza che ci arricchiscono».
La grande casa al centro dell’area su cui sorge la fattoria sociale è cuore e motore di tutta l’attività della comunità. È divisa in piccoli appartamenti perché è qui che si concretizza una parte fondamentale del progetto di vita di alcuni dei giovani che lavorano nella fattoria: la conquista dell’indipendenza.
Il protocollo d’intesa con l’Azienda sanitaria, che è in via di definizione, aprirà una nuova pagina nella storia della comunità. Quattro persone con disturbi psichici sperimentano o sperimenteranno l’opportunità di vivere sole, autogestirsi. Si chiama abitare supportato, o “residenzialità leggera” e rappresenta il sogno più grande per ogni genitore che abbia un figlio con disabilità, tormentato dalla domanda più dolorosa: cosa gli succederà quando non ci sarò più io?
«Il “dopo di noi” lo intendiamo come un percorso comunitario. E la comunità è una famiglia allargata: sostiene e supporta. Man mano che si consuma la famiglia naturale ti ci ritrovi dentro, è un processo spontaneo. Un po’ come accadeva una volta, in cui la rete familiare era quella di zii, cugini, nipoti”.
Per ora tre persone vivono all’interno dell’Arca di Noè (due stabilmente, una per ora solo nei periodi in cui i fratelli non possono occuparsene) e altre potranno essere ospitate in futuro. Per loro ci sono piccoli appartamenti funzionali in cui mettersi alla prova per conquistare nuovi traguardi di autonomia. «Dalla cura personale, alla pulizia degli spazi – spiega Alessandro – senza fretta e senza costrizioni: ognuno ha i suoi tempi e per noi la cosa più importante da acquisire non è l’indipendenza, ma la stabilità emotiva. Perché quando si vivono esperienze al limite è molto difficile abituarsi alla serenità».
Vite al limite come quelle di Antonio e Luigi (i nomi sono di fantasia) che hanno trascorso più tempo negli istituti psichiatrici che fuori.
Antonio mostra con orgoglio dove vive: la cucina, il bagno con la vasca, la stanza da letto, l’armadio con i capi ordinati per colore, la sua amata collezione di peluche. «Te ne regalo uno» dice scegliendo e porgendomi il più piccolo. Ma poi ci ripensa: «Magari te lo regalo la prossima volta». La sua è una storia di abbandoni e di dolore. Si trova qui perché qualcuno entrando in una famigerata struttura per malati psichici lo notò. Cosa ci faceva un ragazzino in un posto del genere?
A meno di 18 anni aveva già vagato da una clinica all’altra, in un vortice di ricoveri senza soluzione di continuità. Quando è nato i suoi genitori avevano troppi figli e troppi problemi. Quel bambino cresceva ma aveva qualcosa che non andava. Lo hanno portato in un istituto di religiose. Le suore per qualche anno si sono occupate di lui, ma poi di fronte ai suoi comportamenti bizzarri e alle crisi improvvise di rabbia hanno chiesto aiuto. E così quel ragazzino sfortunato e “strano” ha assunto lo status di malato mentale e per lui si sono aperte le porte delle strutture psichiatriche.
Adesso è qui, al sicuro. «È la mascotte della nostra comunità – sorride Alessandro e se lo stringe al petto –. Rispetto al passato i comportamenti aggressivi sono quasi scomparsi. Pranziamo tutti insieme e lui si dà da fare per dare una mano, apparecchia la tavola, aiuta nella gestione dei pasti. Gli piace prendersi cura delle sue cose, stare insieme agli altri. Il suo coinquilino è diventato un amico inseparabile, oggi per esempio, che è tornato a casa per il fine settimana, Antonio ha pianto davanti alla stanza rimasta vuota».
La stanza vuota è quella di Luigi (un altro nome di fantasia), che ha conquistato la libertà solo da qualche anno. Nato sordo in un contesto familiare e sociale in cui questo ha significato una condanna. “Anche lui è stato ricoverato in diverse cliniche psichiatriche e ha passato così la sua adolescenza. È tornato a casa poco prima della pandemia, ma dopo poco, purtroppo, ha perso i genitori e ha trovato qui la sua nuova famiglia”.
Non è sempre facile, il percorso verso l’autonomia è lungo e complesso. «Bisogna sostenersi, mettere in conto che non tutti potranno essere totalmente autonomi – conclude Alessandro – si cerca un equilibrio ma qualcuno avrà sempre la necessità di un contesto protetto, di una famiglia allargata che avvolge, tutela, limita i momenti difficili».
È il prezzo della libertà.
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