ROMA E’ stato presentato oggi, nella Sala della Stampa Estera a Roma, il saggio “OxyPolitiK. Come liberarci dalla dipendenza social-qualunquista”, scritto dal presidente di Demoskopika Raffaele Rio.
Il numeroso esercito dei politicanti sta consapevolmente diffondendo il suo oppioide: l’OxyPolitik. E lo sta facendo sfruttando principalmente i social, da Facebook a Twitter, passando per TikTok e Instagram. Ha puntato sui social perché sa perfettamente che sono vere e proprie estensioni da cui le persone fanno sempre più fatica a liberarsi; anzi, ne risultano, in qualche modo, “dipendenti”. Il tutto si metabolizza nella piena e cinica consapevolezza che l’opinione pubblica, soprattutto quella tanto fedele ai social network, è quasi sempre distratta, risultando attenta soltanto in brevi frazioni di tempo. Pochi contenuti, quindi, possibilmente ripetitivi e semplificati all’ennesima potenza e serviti al mercato del consenso con tanto di foto e video per accattivare maggiormente l’attenzione con ridotti sforzi mentali. Una allarmante deriva (social) qualunquista che scarnifica messaggi, contenuti e proposte dei rappresentanti del popolo. E intanto criticità e problemi permangono condizionando l’agire politico e la gestione della cosa pubblica.
L’Italia ha un debito pubblico da oltre 2.800 miliardi di euro, incubo dei decisori istituzionali, che complica qualsiasi processo di crescita economica; l’Italia è al 74esimo posto su 209 paesi per qualità dei servizi pubblici in compagnia di Botswana, Polonia, Tonga, India, Vietnam, Ruanda e Costa Rica; l’Italia è il quinto paese europeo dove si pagano più tasse; l’Italia è al 58esimo posto al mondo nella classifica della complessità fiscale; l’Italia ha un contenzioso tributario fatto da 240mila ricorsi per un valore complessivo delle controversie pari a 30 miliardi di euro; l’Italia ha una criminalità organizzata sempre più infiltrata nelle istituzioni politiche ai vari livelli, capace di controllare centinaia di migliaia di voti; l’Italia presenta un divario crescente tra Sud e Nord in numerosi indicatori macroeconomici; l’Italia è contraddistinta da un tasso di disoccupazione nel Mezzogiorno, soprattutto quello giovanile, tra i più alti d’Europa.
Se la ’ndrangheta si presentasse oggi alle elezioni politiche in Italia con un proprio simbolo (infografica 1) e una propria lista, la ‘Ndranghetocrazia, otterrebbe circa 700mila voti (infografica 2) eleggendo otto parlamentari, cinque deputati e tre senatori. Un peso politico identico ai voti ottenuti dai Repubblicani di Trump alle elezioni presidenziali del 2020 nello stato del Connecticut (715mila voti) e dai Democratici di Biden nel Nevada (703mila voti) oppure alla somma del consenso ottenuto dall’Unione Cristiano Democratica (CDU) e dal Partito Socialdemocratico (SPD), alle Elezioni Federali del 2021 nello Stato di Brandeburgo, pari a 684mila preferenze ottenute (infografica 3).
Ma il sodalizio criminale di origine calabrese non ama “mostrarsi in pubblico” scegliendo una strategia più conveniente: sostenere, attraverso i Gruppi di Condizionamento Elettorale, espressione diretta delle oltre 400 ’ndrine sparse nei territori italiani, candidati “appetibili” dell’intero arco costituzionale, condizionando la scelta dei rappresentanti istituzionali e, di conseguenza, ottenendo un ruolo significativo nella gestione, nel controllo degli enti pubblici centrali e locali, nel consolidamento delle relazioni con i gruppi politici, con il sistema burocratico e, infine, nell’accaparramento delle gare d’appalto.
In testa per capacità di condizionamento del voto elettorale della ’ndrangheta, si posizionerebbe il Mezzogiorno, all’interno del quale le ’ndrine potrebbero contare su un mercato potenziale di circa 300mila preferenze, ossia poco meno della metà del consenso complessivo italiano “estorto”. Ovviamente in cima si colloca la Calabria in cui si palesa un alto livello di condizionamento politico-elettorale delle oltre 300 ’ndrine attive sul territorio. A seguire l’area del Nord Ovest con Lombardia, Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, che subirebbe il potere di condizionamento dei sodalizi criminali ’ndranghetisti per ben 190 mila voti, pari al 27% del dato complessivo. E, ancora, nei sistemi sociali del Centro-Italia (Lazio, Toscana, Umbria e Marche) con Roma in prima fila, si concentrerebbe una quota del potere di condizionamento per ben 140 mila preferenze. Infine, nel Nord-Est, la forza coercitiva elettorale della ’ndrangheta esprimerebbe il suo minore potere (70 mila voti), seppur altrettanto preoccupante e significativo concentrati prioritariamente in Emilia-Romagna.
Diffusa indifferenza e generalizzata sfiducia sull’efficacia degli interventi statali è, infine, il sentiment che prevale tra i cittadini residenti nei comuni i cui consigli sono stati sciolti per fenomeni di infiltrazione o condizionamento di tipo mafioso. Un orientamento medio ottenuto analizzando gli ultimi dieci anni dei riscontri realizzati dalle commissioni straordinarie per “misurare” i rapporti tra cittadinanza e amministrazione negli enti locali che coinvolgerebbe ben 560 mila cittadini su una popolazione di riferimento pari a circa un milione di residenti. In particolare, un cittadino su tre (31,3%) che vive nei comuni commissariati per infiltrazione mafiosa ha manifestato una generale indifferenza sull’operato degli organi di gestione straordinaria. Per il 17% della popolazione locale interessata prevale il senso di rassegnazione, mentre il 9,1% ritiene la presenza delle commissioni straordinarie una perdita di tempo e il 2,9% ha manifestato un sentimento di paura evitando di affrontare l’argomento. Esistono, inoltre, altri due orientamenti diametralmente opposti che si ritiene utile far emergere. Da un lato, il provvedimento di scioglimento viene considerato funzionale a un complotto politico (10,1%) o conseguenza di un errore delle istituzioni (8,2%). Sul versante opposto, l’atteggiamento prevalente dei cittadini che apprendono dello scioglimento del consiglio comunale del comune dove vivono è di indignazione per quanto accaduto (21,4%).
Sono sette le Regioni italiane che nel 2021 non sono riuscite a garantire pienamente le
cure essenziali. È questo il dato più forte che emerge dai risultati del monitoraggio dei
Livelli essenziali di assistenza calcolati con il nuovo sistema di garanzia pubblicato dal
Ministero della Salute. È principalmente il Sud a registrare un livello di sofferenza maggiore nell’erogazione dei servizi sanitari.
E la politica italiana come si è mossa? I risultati dell’analisi puntuale e indipendente dei
programmi elettorali condotta dalla Fondazione Gimbe per le elezioni politiche in Italia
nel settembre del 2022 restituisce un quadro deludente. Se da un lato alcune tematiche (riforma della sanità territoriale, potenziamento organico del personale sanitario e
superamento delle liste di attesa) sono comuni alle principali coalizioni e schieramenti
politici, dall’altro per la combinazione di ideologie partitiche, scarsa attenzione per la
sanità e limitata di visione di sistema, le proposte sono frammentate, spesso strumentali,
non sempre coerenti e senza alcuna valutazione dell’impatto economico. E, cosa ancora
più inquietante, nessuna forza politica ha elaborato un adeguato piano di rilancio per la
sanità pubblica, in grado di contrastare la strisciante privatizzazione, al fine di garantire
a tutti i cittadini il diritto costituzionale alla tutela del nostro bene più prezioso: la salute.
Nel 2022, elaborando i dati Eurostat, l’Italia ha registrato il suo record storico della pressione fiscale, con il 43,7% del Pil che va nelle casse dello Stato. Nel 1995, infatti, l’ammontare del prelievo operato dallo Stato e dagli altri enti pubblici sotto forma di imposte, tasse e tributi, si era attestato al 40,3%. Per operare, inoltre, un confronto con tutti gli altri paesi, risulta necessario utilizzare i dati al 2021. E così emerge che l’Italia, con il 43,6%, è il quinto paese europeo dove si pagano più tasse. Peggio soltanto Danimarca (48,3%), Francia (47%), Belgio (46%) e Austria (43,7%). La media dell’Unione Europea, invece, si attesta sul 41,6% del Prodotto interno lordo. Ma quante tasse si pagano in Italia? Tasse e imposte, a tutti i “livelli fiscali territoriali”, sarebbero quasi 70 ripartite nel modo seguente tra le categorie individuate, anche se in qualche caso interscambiabili: imprese e associazioni (18), persone fisiche (7), auto e trasporti (13), casa e immobili (10), tasse sul consumo energetico (4), tasse relative a procedimenti e atti legali e amministrativi (6), imposte su attività finanziarie e di trading (5), altre imposte (4).
La guerra in Ucraina ha rallentato la ripresa e ha fatto aumentare i prezzi non solo
dell’energia, ma anche di tanti altri prodotti, molti dei quali necessari alla produzione agricola. In coincidenza con lo scoppio del conflitto in Ucraina, la variazione tendenziale (ossia rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) dei prezzi di energia elettrica e combustibili ha subìto, elaborando i dati Istat, un rialzo più che rilevante principalmente nell’ultima parte del 2022 e nei primi mesi del 2023: mediamente il 130% nell’ultimo trimestre del 2022 e il 42% nel primo trimestre del 2023. E, inoltre, il conflitto avrebbe generato, al mese di settembre 2022 secondo una recente stima di Demoskopika, una perdita di valore aggiunto pari a oltre 16 miliardi di euro. A soffrire maggiormente i settori cosiddetti energivori: trasporti, prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio, chimica, prodotti metallurgici, costruzioni. Oltre 2,3 milioni, inoltre, le aziende attive nei settori maggiormente legati all’energia. Democrazia social-qualunquista, rappresentanza e politichese alla prova dei numeri
Oltre 7 dichiarazioni su 10 di esponenti politici risultano prive di fondamento, di dati e fatti in grado di garantire loro accuratezza, veridicità e credibilità. Dato ancora più allarmante se si prova a quantificarlo: su 1.097 esternazioni da parte dei rappresentanti del popolo, ben il 76,3% risulta, totalmente o parzialmente falsa. È quanto contenuto in OxyPolitik che ha provato a tracciare una classifica delle principali forze politiche italiane che si sono contraddistinte per un livello maggiore di dichiarazioni non confermate da fatti, dati e fonti, o solo parzialmente confermate. Qual è, dunque, la classifica dei partiti Pinocchio? (infografica 4).
In vetta, si colloca il movimento della Lega di Salvini, con un rapporto tra dichiarazioni scorrette e parzialmente scorrette che arriva all’88,6% dei casi monitorati. Immediatamente dopo si posiziona Forza Italia con l’83,6%. Sopra la media del sistema italiano, altre due soggetti dell’agone politico. Impegno Civico di Luigi Di Maio, nato nell’agosto del 2022 in occasione delle elezioni politiche, ma già contraddistinto da un elevato livello di dichiarazioni poco veritiere: per lui un terzo posto nel medagliere con il 77,8%. E subito a seguire, Italia Viva dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi con il 76,6%. Al di sotto del dato medio italiano (76,3%), le rimanenti forze politiche che si è riusciti a monitorare per numerosità delle dichiarazioni dei loro esponenti negli anni. Da Fratelli d’Italia, partito dell’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni (75,5%), al Movimento 5 Stelle (75,3%), al Partito Democratico (67,7%). Elaborando, infine, dichiarazioni con dati, fatti e verdetti per come rilevati dall’autore di OxyPolitik, i migliori piazzamenti spettano all’Alleanza Verdi e Sinistra e ad Azione di Calenda & Company rispettivamente con il 66,1% e il 64%.
La popolarità non è gratuita, tutt’altro. Uno sforzo per la classe politica battente bandiera italiana che comporta investimenti economici. Per avere un’idea, seppur parziale e indicativa, degli investimenti della propaganda politica sui social, si è analizzata la
raccolta pubblicitaria su Facebook e Instagram, accedendo alla libreria delle inserzioni e
limitando la ricerca all’Italia e alla categoria “Temi sociali, elezioni e politica”. In termini di raccolta pubblicitaria, il peso delle principali forze politiche vale quasi 4 milioni di euro
in circa quattro anni. Ma quale soggetto politico ha investito di più? Analizzando i dati della raccolta per i social del gruppo Meta (Facebook e Instagram), sicuramente la Lega di Salvini che con quasi un milione di euro rappresenta un quarto (24,8%) del totale degli investimenti complessivi dei soggetti politici italiani. A seguire il Partito Democratico che, nell’arco temporale considerato, ha versato nelle casse di Mark Zuckerberg oltre 592 mila euro e, a pochissima distanza, Fratelli D’Italia con più di 579 mila euro investiti in inserzioni su Facebook e Instagram. Molto attivi sul versante social-pubblicitario anche le due forze politiche dell’oramai tramontato “Terzo polo”, Azione di Calenda e Italia Viva di Renzi rispettivamente con 352 mila euro e 348 mila euro di spesa totalizzata per la propaganda elettorale. (infografica 5).
Esiste un nesso tra la partecipazione al voto e l’uso dei social network? I dati, seppur espressione di un’analisi preliminare, sembrerebbero sostenere questa l’ipotesi. Mentre, infatti, il livello di affluenza si riduce negli anni (75,2% nel 2013, 72,9% nel 2018 e 63,9% nel 2022 per le elezioni politiche) in direzione diametralmente opposta si muove la quota di cittadini che usa le reti sociali (54,9% nel 2013, 65,2% nel 2018 e 67,2% nel 2022). Inoltre, per avere un’idea ancora più evidente dell’astensionismo o del “voto mancato”, è sufficiente applicare alle tre singole competizioni elettorali poc’anzi osservate, il tasso medio di affluenza alle urne che si è registrato in Italia fino al 1976,
pari al 93,17% ottenendo, in qualche modo, la quota di italiani che ha rinunciato
ad andare a votare: nel 2013, con una simile affluenza si sarebbero recati alle urne
7,6 milioni di italiani in più, nel 2018 oltre 9,4 milioni di individui fino ad arrivare
alla più recente elezione del 2022 che avrebbe, nella nostra simulazione, visto una
maggiore partecipazione al voto pari a ben 13,5 milioni di elettori.
Se, infine, si prova a generare una previsione per l’immediato futuro sulla base dei
trend storici e dei comportamenti dell’elettorato attivo fino ad ora registrati, potrebbe verificarsi che in occasione delle prossime elezioni politiche previste, alla
loro data naturale, nel 2027, si recherebbe alle urne circa il 54%, poco più della
metà, quindi, degli aventi diritto al voto. Un risultato, dunque, scarno per qualsiasi
maggioranza che uscisse vittoriosa dalle urne e, soprattutto, poco edificante per
la democrazia italiana e per le sue istituzioni di rappresentanza.
Le maggiori sigle sindacali italiane perdono migliaia di iscritti all’anno. I numeri
non lasciano spazio a dubbi: dal 2011 al 2022, i tesserati hanno registrato una contrazione di circa 850mila persone, di cui oltre 582mila residenti nelle realtà regionali del Mezzogiorno, pari a poco meno del 70% della contrazione complessiva. È
la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (Cisl), in valore assoluto, a subire
il maggiore decremento con un calo di ben 491mila iscritti seguita dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (Cgil) con meno 476mila tesserati. In controtendenza, l’Unione Italiana del Lavoro (Uil) che nell’arco temporale considerato fa
registrare un incremento di poco meno di 118mila iscritti. Anche l’Organizzazione
per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) raccoglie i dati sulle adesioni
ai sindacati dai siti dei sindacati stessi. La densità sindacale (Trade Union Density),
definita come il numero di iscritti netti al sindacato (escludendo cioè coloro che nnon fanno parte della forza lavoro, disoccupati e lavoratori autonomi) in proporzione al numero dei dipendenti, conferma un calo manifesto delle iscrizioni ai sindacati italiani a partire dal 2013: dal 35,7 al 32,5 segnando il minimo storico degli
ultimi 20 anni.
L’83,7% dei giovani italiani ritiene che l’incitamento all’odio in rete comporti “conseguenze sulla vita reale degli offesi” a cui fa immediatamente eco una consistente quota del 79,5% che lo ritiene una “forma molto grave di aggressione dell’altro”.
A chiudere l’orientamento di condanna la percezione di chi pensa che l’hate speech sia un fenomeno “legato a maleducazione” di chi lo commette (76,9%). Sul versante “giustificazionista”, inoltre, il 41,3% ritiene che le social insidie siano una “modalità tipica della comunicazione online” (41,3%) mentre per il 27,2% “sono solo parole”. Il 25,6% pensa che l’hate speech “evita che l’odio si esprima nella vita reale” e per il 20,4% risulta un “modo accettabile per ridurre la rabbia”.
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