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la riflessione

Giulia, il dolore e la retorica

La vicenda di Giulia Cecchettin conclusasi tragicamente oggi ha tenuto con il fiato sospeso l’opinione pubblica. Eppure ( lo si legga tra virgolette) non è dissimile da tante altre storie simili. …

Pubblicato il: 18/11/2023 – 15:15
di Mario Campanella
Giulia, il dolore e la retorica

La vicenda di Giulia Cecchettin conclusasi tragicamente oggi ha tenuto con il fiato sospeso l’opinione pubblica. Eppure ( lo si legga tra virgolette) non è dissimile da tante altre storie simili. Il fatto che i due ragazzi fossero irreperibili ( lui ancora lo è) ha suscitato l’interesse nazionale. La notizia è stata la prima per giorni e sarà così per un altro po’ e fino a quando non sarà trovato il presunto assassino.
Anche in questo caso i social hanno dato il meglio e il peggio di sé. Insieme a un dolore genuino sono apparse tante manifestazioni di retorica e di giacobinismo puro.
Non manca il solito ritornello della pena di morte che ha ancora tanti consensi nel nostro Paese, nonostante sia l’espressione più aberrante di risposta da parte di uno stato democratico.
In mezzo c’è la questione della giusta pena. Che non è trascurabile. E anche delle solite invocazioni di perizia psichiatrica che accompagnano praticamente tutti gli omicidi familiari o di genere.
Per la nostra cultura un mafioso che uccide un bambino nell’acido ha una sorta di grammatica omicidiaria, mentre chi uccide la compagna o la fidanzata ha certamente problemi mentali.
Lo abbiamo visto nel caso Matteuzzi ( omicida pienamente capace), in quelli di Benno ( pienamente capace), di Biscaro ( pienamente capace), sicuramente per Impagnatiello( anche lui risulterà capace). Per non parlare di Giandavide De Pau ( anche lui capace). Saremmo stati comunque parzialmente soddisfatti se il dato dei femminicidi avesse registrato il segno meno seppure ovviamente anche un solo omicidio sarebbe doloroso ma pare che ci sia il segno più.
Se dobbiamo fare prevenzione gli strumenti che abbiamo sono quelli culturali: educare al dialogo, educare alla libertà, soprattutto educare a rapporti non nevrotici fatti di reciproco possesso: a quell’età sono tutt’altro che rari.
Bisognerebbe avere il corpo di un ventenne e la testa di un cinquantenne diceva Rimbaud per vivere con equilibrio.
Se dobbiamo, ed è doveroso, garantire la certezza della pena ( senza mai dimenticare che siamo liberali e obbligati a rendere la pena riabilitativa) bisogna fare i conti con diverse cose.
Una giurisprudenza eccessivamente progressista attribuisce ancora i mali individuali esclusivamente alla Società: per cui l’individuo non può che essere immune da colpe.
La nosografia psichiatrica è piena di esempi e studi sui disturbi dì personalità. Borderline, narcisista, schizoide, etc. È pressoché sicuro che ognuno di noi abbia tratti di questi disturbi. Ma l’infermità andrebbe garantita a chi è veramente malato: un allucinato, un delirante che uccida in ragione della sua realtà che è antitetica a quella condivisa.
Un border antisociale non è affatto matto, non lo è un bipolare senza manifestazioni psicotiche, non lo è un sadico, men che meno un narcisista.
Questa narrazione a cui noi giornalisti ( per definizione montanelliana “i più ignoranti di tutti “) abbiamo contribuito è alla base della scarsa certezza della pena.
Lo sa bene Renato Valboa, un “signore” che uccise la moglie dopo averle detto “ so fare il pazzo “ che è riuscito in appello a farsi riconoscere l’infermità.
Servirebbe che la politica insieme ponesse rimedio ad alcuni danni giurisprudenziali e che la comunità fosse più aperta, capace di riconoscere reciprocamente i propri demoni. Citando Antonio Semerari autore di un bellissimo libro sui Karamazov, dovremmo rileggere di più i classici e Dostoevskij per capire che siamo nati violenti e guardare alla nostra ombra con la consapevolezza che l’imperfezione , e non l’esaltazione dell’Io, ci rende umani. E nell’umanità riscoprire il valore della vita rispettandone ogni giorno la dignità.

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