COSENZA «Io sapevo che i murales li fanno a chi è morto. Ma va bene anche così, perché altrimenti non avrei potuto vederlo. Sono riconoscente all’artista e a chi ha voluto farmi questo bellissimo dono». Padre Fedele Bisceglia si fa una delle sue risate e commenta con una punta di cinismo il dipinto realizzato dall’artista Paolo Viscardi, su uno dei piloni della sopraelevata su viale Giacomo Mancini (leggi qui). Un regalo per i suoi ottantasei anni appena compiuti, se pure con qualche acciacco. «Se non fosse per questa schiena che mi tormenta, starei bene» rassicura. E nonostante le raccomandazioni dei medici di non affaticarsi si prepara ad affrontare un nuovo viaggio in Congo. «Partiremo dopo Pasqua, se Dio vuole. Abbiamo tanti progetti da seguire e stiamo per spedire un container carico di tutto ciò che i donatori ci hanno portato». Il monaco – è così che lo chiamano tutti i suoi amici – non si ferma. Eppure, tutto quello che dice è permeato del dopo di lui, di ciò che lascia e della sua eredità. Fin dalla prima raccomandazione che chiede di diffondere: «Io ho perdonato tutti, ricordatelo. Continuate a fare del bene nel mio nome e nel ricordo di tutto ciò che è stato fatto».
C’è un buon profumo nella cucina del Paradiso dei poveri, l’enorme struttura di Donnici dove Padre Fedele ha ricostruito in qualche maniera il suo mondo andato in pezzi dopo le accuse di violenza sessuale e il processo subito. Al suo fianco Teresa Boero, sua fedelissima collaboratrice che si occupa amorevolmente di lui ma anche dello smistamento dei pacchi, delle missioni in Africa e della gestione della struttura.
Sul muro della stanza riscaldata dalla stufa a legna, c’è la cornice con la foto replicata sul murales: il frate ha in braccio la piccola Anna, portata in Italia per consentirle le cure, oggi quella bimba ha 22 anni.
Padre Fedele ha riempito i muri e le mensole con le foto dei momenti più belli e importanti della sua vita. Nei lebbrosari, col saio bianco accanto ai malati, sorridente e complice con i suoi fratelli e con sua sorella, «e quella è la mia amatissima mamma, sembrerà strano ma più invecchio e più mi manca».
Le accuse, il processo, i giudizi, il divieto di continuare a dire messa e di gestire l’Oasi francescana: tutti questi anni hanno lasciato delle cicatrici profonde. Era il 23 gennaio 2006: l’Italia apprese che il frate famoso in tv per le sue incursioni in curva o per aver convertito una pornostar (quella Luana Borgia che donò anche un’ambulanza all’Oasi francescana) era accusato di aver violentato una suora. La città, che invece lo conosceva soprattutto per il suo impegno a favore dei poveri, si divise tra quelli che erano certi della sua innocenza e quelli che erano certi della sua colpevolezza.
La messa non potrà più dirla perché sospeso a divinis, ma la riabilitazione è arrivata dopo la sentenza di assoluzione, con la nomina di assessore nella giunta comunale guidata da Mario Occhiuto nel 2016. «Una bella esperienza» commenta. Adesso la città gli regala questo nuovo murales, quasi una mano tesa verso di lui. Un risarcimento? «Non la vedo così. Hanno buttato tanto fango su di me, ma Cosenza mi ha sempre voluto bene, ho sempre percepito di avere dalla mia parte la gente. Mi hanno colpito, ma io sono rimasto in piedi, mi hanno tolto la mia amata Oasi francescana (che oggi, gestita dalla fondazione Casa San Francesco, continua ad offrire ospitalità alle persone in difficoltà, ndr), ma io ho ricominciato daccapo, in questa nuova struttura che potrà accogliere e curare tanti bambini con disabilità. Soprattutto, ho continuato ad aiutare i poveri, qui e in Africa».
C’è una domanda che si sente fare spesso: in questi anni difficili la sua fede ha vacillato? «Mai – è perentorio –. È incrollabile la mia fede. Nonostante le disavventure che ho vissuto io mi sento e sono un chiamato di Cristo». Poi il tono si fa più serio: «Prima di morire vorrei realizzare un desiderio, quello di incontrare la suora che mi ha accusato. Vorrei dirle che l’ho perdonata, vorrei morire con questa serenità nel cuore. L’ho detto tante volte ma io non so se questo mio messaggio è arrivato a lei, per questo vorrei poterla incontrare e oggi qui lo chiedo ancora ufficialmente».
Mentre scava tra i ricordi riemerge quello che considera il momento più difficile. «La prima notte in carcere. Stanza numero 10, Madonna mia che nottata. Ero stordito, incredulo. Come sono arrivato qui? Che ho fatto? Mi chiedevo».
Il sorriso torna quando si parla del suo punto debole, ovviamente le donne. «E che ci posso fare? Le belle donne mi piacciono, pure adesso che sono anziano le guardo. È la debolezza umana. L’ho sempre ammesso, anche pubblicamente» ride. Con gli occhi chiusi ritorna indietro nel tempo: «Ricordo una volta, tantissimi anni fa, a Milano, ero un giovane frate e mi trovavo alla fermata del tram. Scende questa ragazza bellissima e io non posso fare a meno di girarmi a guardarla. Intorno a me le persone mi lanciano certe occhiatacce, il mio saio non passava certo inosservato. Ragazzi miei – ho detto io ad alta voce alzando le braccia – se questa ragazza che è opera del Signore è così bella, pensate allora quanto deve essere bello il nostro Signore! Tentai di cavarmela così, per lo meno gli ho strappato un sorriso».
Quando la macchinetta del caffè è già sul fuoco arriva una visita. È Sergio Crocco, “canaletta” per tutti, per anni collaboratore dell’Oasi e fondatore della Terra di Piero, l’associazione che porta il nome di Piero Romeo, amatissimo cuoco della mensa dei poveri scomparso nel 2011. «Sergio l’ho cresciuto – dice Padre Fedele accogliendolo – e sono felice che abbia coltivato l’amore per la solidarietà. Per me lui e gli altri Ultrà della curva sono come figli, sono orgoglioso di averli nella mia vita, in questi anni mi sono rimasti sempre accanto. Sempre. Di me non hanno mai dubitato».
Erano i primi anni ’80, in curva si presenta questo frate col saio bianco e la sciarpa del Cosenza al collo. «All’inizio lo abbiamo sfottuto – ricorda Sergio – dicevamo: ma che vuole questo? Viene a parlare di Gesù in curva? Ma è pazzo. Non avremmo mai immaginato che quel monaco ci avrebbe cambiato la vita».
Perché Padre Fedele non solo è riuscito a non farsi respingere da ragazzi che tutti consideravano degli sbandati, ma gli ha fatto addirittura abbracciare lo spirito missionario. Quegli Ultrà li ha prima portati in Africa e poi insieme a loro ha fondato l’Oasi francescana con il dormitorio e la mensa dei poveri. «Non so come abbia fatto – dice Sergio Crocco – ma ha saputo usare le parole giuste, ha utilizzato il nostro linguaggio. Ha davvero tirato fuori il meglio da ognuno di noi». Il resto è la storia di un luogo in cui per anni si sono intrecciate migliaia di esperienze di persone che in comune avevano la necessità di un tetto, di un pasto caldo e di un po’ di compagnia.
Un carosello di personaggi che gravitavano intorno al centro della città e che si ritrovavano seduti ai tavoli della mensa, a condividere momenti di grande umanità. L’indimenticato Totonno “lo squalo” col suo sorriso sdentato che urlava “La Juventus è morta” a corso Mazzini. Franco detto “centolire”, all’epoca era poco più di un ragazzino appena tornato dalla Germania e amava parlare di astrologia e oroscopi. E ancora, il “ragioniere” chiamato così perché per darsi un tono non si separava mai dalla sua valigetta di pelle. In giro diceva che conteneva documenti importanti, ma i volontari dell’Oasi a cui l’affidava, avevano invece appurato che al suo interno non c’era nulla, al più custodiva la frutta che veniva distribuita a fine pasto. C’erano il celebre “cappiaddru” e “’u mammarutu” per via di una deformazione che gli deturpava il volto. Ogni soprannome una vita. Ogni giorno nuove storie sussurrate intorno a quei tavoli, storie di dolore e di solitudine ma anche di solidarietà e gratitudine. «E te la ricordi Luisa?» padre Fedele annuisce. «Luisa voleva abortire ma solo perché in casa non c’erano abbastanza soldi – ricorda Sergio – il monaco l’ha convinta a tenere la bambina, ha aiutato per tanti anni la sua famiglia».
«Dal 1985 al 2007 ne abbiamo vista passare gente dall’Oasi» ricorda Padre Fedele e Sergio sorride. “Giancarlo il senese, Liberino, Miliuzzu, Nunziatina. Mi sembra di vedere tutti i loro volti qui davanti a me” si sorprende il monaco. «E te la ricordi Pasqualina? La “nostra” maestra, collaboratrice storica dell’Oasi» ricorda Sergio. Alta meno di un metro e cinquanta ma con una grinta inesauribile, nonostante all’epoca fosse già in pensione. «Si prendeva cura dei bambini che con i genitori venivano a mangiare alla mensa – spiega – gli faceva fare i compiti, gli procurava libri e giocattoli. Quando è morta ha lasciato un vuoto enorme».
Erano gli anni in cui la cucina della mensa si riempiva all’improvviso di vassoi colmi di cibo donato dai ristoranti, senza permessi e senza preavvisi. «Ed era una festa – ricorda Sergio – perché dolci e manicaretti rendevano felici tutti gli ospiti». Cibo, ma anche tanto denaro donato dai benefattori della città. «Padre Fedele lo distribuiva a chi ne aveva bisogno, quello che ricevi lo devi donare ripeteva sempre: padri di famiglia, ragazze madri, disoccupati. Chiunque bussasse alla sua porta sapeva che sarebbe tornato a casa con il cofano della macchina carico o con le bollette pagate, non c’era neanche bisogno di dare spiegazioni. Lui sapeva».
Il monaco ha gli occhi lucidi, ma forse è solo stanchezza. «Questa schiena, se non mi facesse così male camminerei meglio, starei di più in strada a raccogliere fondi per le missioni. C’è ancora tanto da fare – dice – ma so che quando io andrò in paradiso lascerò la mia eredità in buone mani: c’è Teresa che è stata in Africa con me e continuerà l’opera di solidarietà che abbiamo iniziato insieme. E poi c’è Sergio che per me è un figlio. Ci prendiamo in giro, ci sfottiamo, io gli dico che ora è lui quello famoso che deve sostenere me. Poi però guardo a quello che sta facendo con La terra di Piero e mi riempie di orgoglio: ho portato a Cosenza un’ondata di solidarietà che non si è mai più fermata».
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