Le elezioni politiche del giugno 1976 registrano un clamoroso exploit del Partito comunista. Vince ancora la Democrazia Cristiana che, però, è costretta a prendere atto del cambio di passo del partito guidato da Enrico Berlinguer. Il Paese, come evidenziato dallo stesso segretario comunista subito dopo l’esito delle elezioni, ha bisogno di una collaborazione tra le due opposte fazioni. «Abbiamo rilevato – afferma Berlinguer – che l’avanzata del Partito comunista e lo spostamento a sinistra nella composizione del Parlamento e nella situazione generale del Paese, oltre che la gravità e la crisi economica e politica italiana, rende necessaria la realizzazione di una partecipazione dell’insieme del movimento operaio con la direzione politica del Paese».
In quella tornata elettorale, per la prima volta viene consentito ai diciottenni di votare. Francesco Vinci, detto Ciccio, 18 anni li ha compiuti pochi mesi prima di quell’estate di successi politici e ipotesi di alleanze impensabili. È un giovane studente di Cittanova, un paesino della provincia di Reggio Calabria, cresciuto in una famiglia di democristiani. Ma lui, nonostante la giovanissima età, segue altri modelli. Quel nuovo leader comunista arrivato al vertice del partito nel 1972, lo ispira, riesce a trascinarlo. Ha idee innovative, moderne, e il referendum sul divorzio del 1974 seguito dalle elezioni amministrative del 1975, dimostrano che una fetta consistenza dell’Italia ha voglia di cambiamento. Il 1976 è l’anno delle radio libere con la liberalizzazione delle trasmissioni via etere in ambito locale.
Lui, Ciccio Vinci, quell’aria di cambiamento la assimila, la studia, la condivide con i suoi amici che di politica sanno o non sanno ancora abbastanza. E non si piega di fronte alle minacce di chi non condivide la sua esuberanza. Ad aprile del 1976 scampa a un piccolo attentato, un’intimidazione, che definisce un avvertimento. Vive le sue passioni senza alcun timore, studia, si informa continuamente, gioca a calcio benissimo, nella squadra del suo paese, la Cittanovese, di cui (anche lì, sul campo) è il leader assoluto. Si dice che abbia della stoffa e che potrebbe arrivare in alto, se solo volesse. Ma è la politica ad attirarlo di più.
Gira in paese con l’Unità sotto al braccio e non si perde un giorno di quella campagna elettorale. In poco tempo, grazie al suo carisma innato, diventa un importante attivista della Fgci (la Federazione giovanile comunista italiana) e un leader studentesco, entra a far parte delle leghe dei giovani disoccupati. Le sue battaglie, però, pur partendo dai principi di rinnovamento e di giustizia sociale ed economica portati avanti a Roma da Enrico Berlinguer, sono prevalentemente locali, riguardano il suo territorio. Già così giovane comprende che è la ‘ndrangheta che bisogna combattere per ridare respiro alla sua terra, e soprattutto sono i suoi coetanei che devono comprenderlo. Dopo quelle elezioni storiche, il 18enne partecipa, a nome del suo liceo scientifico, a un’assemblea pubblica tenutasi nella sala del Consiglio comunale di Cittanova. Il suo è un intervento caldo, maturo, che spiazza tutti i presenti. Ha il fisico prestante, gli occhi azzurri e vivi, penetranti, impossibile non starlo ad ascoltare. In quel discorso osa opporsi con calore alle cosche di ‘ndrangheta che da anni stanno sporcando di sangue quella realtà così distante da Roma e dal resto d’Italia. Sente la necessità di fare qualcosa, di rompere il muro di omertà che lo circonda, bisogna che qualcuno parli apertamente di quella faida che oppone la cosca Raso-Albanese a quella dei Facchineri e che dal 1964 ha già prodotto oltre 100 morti, alcuni dei quali bambini. Ancora è vivo il ricordo della strage di Cittanova del 13 aprile 1975 in cui sono stati uccisi Giuseppe Facchineri e i suoi due nipoti, Domenico e Michele, di 9 e 12 anni.
«Bisogna spezzare questa ragnatela che ci opprime», dice con coraggio Ciccio Vinci. «La mafia ci spaventa, ci terrorizza, non ci fa crescere culturalmente, economicamente». Ha 18 anni, soltanto 18, e nessuno aveva mai parlato in quel modo.
La mattina del 10 dicembre 1976, Ciccio Vinci raggiunge il distretto militare di Reggio Calabria per consegnare i documenti che gli valgono il rinvio del servizio di leva per motivi di studio. Quando rientra a Cittanova, si sente stanco e decide di riposarsi un po’. Al risveglio gioca con il nipotino. Alle sei, la zia Carmela Bottiglieri gli chiede di accompagnarla in campagna per prendere il marito Girolamo Guerrisi e riportarlo a casa. Prendono la macchina del figlio, Rocco Guerrisi, insieme a loro c’è anche Salvatore Catanese, nipote della zia Carmela. Fuori è già buio e Ciccio si mette alla guida della “Fiat Campagnola” del cugino. A pochi passi dal cimitero, li attendono tre persone. Appena l’automobile si avvicina, due di loro iniziano a sparare contro il mezzo con un fucile a canne mozze e una pistola, poi scappano via. Ad essere colpito gravemente è Ciccio Vinci, la zia, invece, rimane ferita lievemente, il nipote resta illeso. Il trasporto in ospedale è inutile, il ragazzo muore poche ore dopo.
Cittanova è sconvolta da quella notizia. Al funerale di Ciccio Vinci la piazza del paese è stracolma di gente. Giovani e meno giovani provenienti dall’intera provincia, sfidano la paura. La casa di uno dei boss del paese viene circondata dalle centinaia di ragazzi che gli urlano contro il proprio dolore. Nelle settimane successive, sempre a Cittanova si terrà una manifestazione contro la ‘ndrangheta, probabilmente la prima in Italia, con oltre 5 mila persone.
Il ricordo di Ciccio è vivo, caldo, ingombrante. Nessuno, tra le persone che lo conoscevano, accetta quell’ingiustizia.
Nonostante non ci sia più, viene eletto rappresentante studentesco della sua scuola. Un gesto simbolico, forte, che vuole lanciare un messaggio all’intera comunità. Da quel momento in poi tante persone decidono di parlare, di testimoniare, di dare una mano ai carabinieri per arrivare a scoprire i colpevoli di quell’esecuzione barbara. Ma è sul funerale che gli inquirenti stanno concentrando da giorni la loro attenzione. L’assenza a quella giornata di Vincenzo Cesare Marvaso, compagno di classe molto amico di Ciccio, spinge i carabinieri a convocarlo in caserma, anche perché in paese girano strane voci, c’è chi è convinto che sia stato lui a sparare. Vincenzo Cesare più volte in passato era stato aiutato da Ciccio Vinci a fare i compiti, spesso andava a trovarlo a casa. E allora perché non si è presentato al funerale insieme agli altri studenti? Perché non ha partecipato al lutto della famiglia? Lui, l’indiziato, respinge ogni accusa.
Si ipotizza a lungo la possibilità che si sia trattato di un delitto politico allo scopo di mettere a tacere per sempre quel ragazzo impegnato nel Partito comunista e nella lotta contro la ‘ndrangheta. Ma, col tempo, questa teoria viene smontata e le indagini, dopo tre anni, arrivano a una svolta, soprattutto grazie al sostegno dei tanti giovani che non vogliono più rassegnarsi a quel male orrendo che li circonda. “A tre anni dal suo sacrificio – scrive il 25 marzo del 1979 il cronista calabrese Enzo Lacaria sull’Unità – centinaia di giovani hanno rotto la gabbia delle antiche tradizioni, si sono dati strutture democratiche di lotta, di studio, di lavoro, aprendo un ampio dibattito politico ed ideale. A Cittanova, antico centro bracciantile, di raccoglitrici di olive, di piccola e media borghesia agraria e professionale, l’omertà non ha retto a lungo: il pellegrinaggio di giovani e ragazze alla tomba di Francesco Vinci è stato, in questi due anni, una muta testimonianza di sfida alla prepotenza mafiosa”.
Quella sera di dicembre del 1976, il bersaglio dei killer non era Ciccio Vinci. La macchina che guidava apparteneva al cugino Rocco Guerrisi, che aveva un legame di sangue con i Facchineri. Dinamiche imprevedibili, una vendetta trasversale, quindi, che aveva colpito a morte la persona sbagliata.
Proprio nel marzo del 1979 i carabinieri arrestano per l’omicidio del 18enne Francesco Trimarchi di 22 anni, Gerardo Galluccio di 21 anni e i fratelli Romeo e Vincenzo Cesare Marvaso, di 28 e 23 anni. Sì, c’è anche lui, il compagno di classe di Ciccio. Tre anni dopo arriva la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Palmi: 30 anni di reclusione per tutti, tranne Romeo Marvaso che viene assolto con formula dubitativa. L’appello riduce le pene a 24 anni.
Il 10 dicembre del 1976, davanti al cimitero di Cittanova, fu proprio Vincenzo Cesare Marvaso a sparare al suo amico e ad ucciderlo. Lo fece con un fucile, mentre Trimarchi utilizzò la pistola.
Cittanova, a distanza di più di 45 anni, non ha mai dimenticato Francesco “Ciccio” Vinci e le sue battaglie contro la ‘ndrangheta. Nel 2016 l’amministrazione comunale ha intitolato al ragazzo il Polo della Legalità. Un’iniziativa che ha portato successivamente i comuni di Cittanova e Vimidrone (nel Milanese) a realizzare il progetto “Costruiamo strade in memoria” nel ricordo di Francesco Vinci e Lea Garofalo.
All’interno del cimitero, c’è un monumento pubblico in memoria dello sfortunato ragazzo. Un libro (“Il sangue dei giusti – Ciccio Vinci e Rocco Gatto due comunisti uccisi dalla ‘ndrangheta”) scritto da Claudio Careri, Danilo Chirico e Alessio Magro racconta la sua storia. Proprio in quelle pagine, viene riportato un ricordo di Concetta Giovinazzo, un’ex compagna di classe a cui Ciccio Vinci era particolarmente affezionato: «Era convinto che dovevamo essere noi a dare una svolta, a cambiare le cose. Non potevamo più fingere di non vedere e non sentire. Lui credeva nelle sue idee e ci credevamo un po’ tutti. Con lui sono morti i nostri ideali». (redazione@corrierecal.it)
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