L’appuntamento di “Calabria dell’altro mondo”, il format condotto da Danilo Monteleone, in onda ieri sera alle 21.00 su L’altro Corriere (Canale 75), è dedicata a Rosario Livatino – il giudice ucciso in Sicilia, sulla strada da Canicattì ad Agrigento, da quattro sicari il 21 settembre di 33 anni fa e proclamato Beato proprio perché, con il sostegno di una fede profondissima, è stato un rigoroso interprete della funzione giudiziaria – e alla mostra «sub tutela Dei» (promossa dal Meeting di Rimini, curata da Roberta Masotto e ospitata in questi giorni negli spazi dell’università Magna Grecia di Catanzaro) che racconta la parabola umana e professionale di un giudice che in pochissimi anni è riuscito a scrivere una pagina indelebile di coerenza e rigore.
La falsa motivazione, una bugia con cui il mandante convinse i killer, era che Livatino favorisse un’altra consorteria criminale. Di quei momenti tragici, ma anche del ricordo indelebile che il giudice ha lasciato, parlano la curatrice Masotto e i familiari del giudice ucciso. Si vedono i genitori di Rosario in un frammento di un vecchio programma Rai («si chiamava anche Angelo perché era un angelo» dice il padre), poi si racconta del senso di giustizia nato grazie ai racconti del nonno e del padre, entrambi dalla parte della legge e dei deboli, del professore di filosofia ateo ma molto legato al giovane studente Livatino, che spesso viene messo dietro la cattedra a insegnare; e ancora la parrocchia e l’azione cattolica con l’aria del Concilio Vaticano II a fare da humus per le nuove generazioni.
«Un mafioso che abitava vicino a lui fece murare un ingresso pur di non incrociarlo – racconta Masotto – in anni di lotte tra clan che vedono imporsi i corleonesi. Da magistrato però giudicava il reato e non la persona, evangelicamente. Non faceva sconti ma rispettava la persona e credeva nella rieducazione della pena, il reo secondo lui doveva poter riflettere e avere una possibilità e magari cambiare, risollevarsi. E aveva una grandissima capacità investigativa: non si accontentava mai della prima impressione, vuole esaminare in maniera approfondita perché sa di essere un uomo soggetto a errore. Aveva grandi intuizioni: riesce a ricostruire un grosso giro di tangenti da una piccola fattura falsa, comprende l’utilità di servirsi delle misure di prevenzione della legge Rognoni-La Torre, così sottrae ossigeno alla mafia colpendo il patrimonio… Il suo lavoro era rendere giustizia, era uno strenuo difensore del segreto istruttorio e non amava apparire o rilasciare interviste, rispettava le persone fino alla sentenza definitiva. Prima di morire rivolge una frase ai suoi assassini: “Picciotti, cosa vi ho fatto?”, con mitezza, un ultimo appello di umanità a quelle persone che in tutta risposta sparano il colpo di grazia. È un martire per la fede nel servizio della giustizia – i mafiosi lo odiavano per la sua fede – ma la maggior parte delle persone che gli tolsero la vita si è oggi pentita realmente, dopo un percorso in carcere, e adesso prega Rosario Livatino e diffonde il suo esempio: alcuni di loro hanno anche chiesto di essere sentiti nel processo di beatificazione. Ancora oggi insegna ai ragazzi a vivere per un ideale, fino all’estremo gesto».
A L’altro Corriere parla anche Salvatore Insegna, cugino di Livatino. «Aveva una venerazione per i genitori e tutta la famiglia, non scordava i compleanni e i momenti importanti della vita di ognuno di noi. Venerava i genitori nel senso di una obbedienza sempre presente in lui. Era allegro e spiritoso, amava i libri e Tex, era un uomo di una dolcezza e tenerezza infinite. A casa non parlava con nessuno del suo lavoro. Il suo sacrificio è stato pesante e ancora oggi lo ringrazio come dovrebbero fare tutti, il suo nome ancora esiste tra noi anche grazie a Piero Nava (testimone dell’omicidio e figura chiave del processo, ndr), un uomo che ha dovuto cambiare vita e grazie al quale abbiamo una legge sui testimoni di giustizia. Rosario è stato beatificato come “martire della giustizia” e al di là dei miracoli ancora in esame ha testimoniato la sua fedeltà allo Stato e a Dio fino alla fine, alla espiazione del sangue. Non c’è testimonianza più forte, vera e totale di dare la propria vita per queste fedi, più che ideali. Ma evangelicamente la sua morte è come un chicco di grano da cui rinasce la vita».
Si tratta di «una storia di cui occorre tenere memoria» commenta Salvatore Curcio, procuratore di Lamezia Terme. «Un modello, un esempio da seguire non soltanto per la sua attività di magistrato integerrimo, irreprensibile e inavvicinabile ma anche per la sua storia di uomo e uomo di fede. Fu portatore di una idea di giustizia più elevata rispetto alla comune accezione: parlava di “operatori di giustizia” e non di diritto, aveva maturato il convincimento che fede e giustizia camminassero insieme, e che quei valori etici e principi morali dovevano costituire il substrato su cui innestare l’attività professionale. È questa l’eredità che ci lascia, una testimonianza silenziosa fatta di impegno civile e sociale. In una società di indifferenti, seguire questo modello marca la differenza. Sobrietà equilibrio, umiltà e umanità erano le sue virtù. Il suo primo miracolo? Non la presenza del testimone sul luogo del delitto, che pure è merce rara tanto in Sicilia quanto in Calabria, bensì quello che è successo dopo: le sue ultime parole ricordano quelle di don Pino Puglisi, “me lo aspettavo”, e in entrambi i casi il miracolo è stato il pentimento e la collaborazione degli assassini. Livatino è patrimonio non solo della Sicilia ma dell’umanità».
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