L’infinito è argomento universale e disarmante. Giacomo Leopardi lo cantò in versi e ci consegnò la propria resa scrivendo: «Così tra questa immensitàs’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare». Giordano Bruno fu condannato al rogo a causa della denuncia di Giovanni Mocenigo, che l’aveva accusato per certe sue teorie, tra cui quella sull’esistenza di «infiniti mondi, et che Dio ne fa infiniti continuamente». Sul tema generale, la penna di Jorge Luis Borges ci regalò una meravigliosa complicazione con l’«Aleph», definito come «uno dei punti dello spazio che contengono tutti i punti», come «il luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli». L’infinito è insomma una suggestione, un richiamo fisso, una voce della storia. Ed è problema filosofico, matematico, scientifico.
A Rende, nella quiete di Arcavacata, il professor Yaroslav Sergeyev, ordinario di Analisi numerica nell’Università della Calabria, ha creato l’«Infinity Computer», che risolve problemi millenari sui numeri e apre una nuova strada alla scienza, alla tecnica, al progresso per la vita umana. Scienziato colto, schivo e concreto, ci racconta che si trasferì in Calabria per la tranquillità, la storia, la cultura e l’accoglienza del posto. Soprattutto, ci parla del potenziale della propria invenzione, che potrebbe cambiare il futuro comune; anche della regione, se diventasse un chip prodotto a livello locale, grazie a investimenti convinti e mirati. Non capita tutti i giorni di discutere con una «beautiful mind», allora ne approfittiamo per chiedere al professore, tra l’altro, un giudizio sui rischi delle nuove tecnologie, su alcuni limiti della Calabria e sulla riforma del sistema universitario. Portate pazienza per la lunghezza dell’intervista, ma vale la pena leggerla sino alla fine.
Di recente ha detto che spesso i calabresi non riconoscono le ricchezze della Calabria. Partiamo da qui.
«Sì. In Calabria si vive bene e spesso chi ci abita non se ne accorge. Per cambiare prospettiva, bisogna uscire dalla propria dimora e fare qualche passo in un altro Paese, in un altro luogo. Così uno apprezza ciò che ha a casa sua. Ho girato il mondo e dunque ho potuto valutare che la qualità della vita in Calabria è altissima. Come posto in cui vivere, la regione ha tutto: due mari, più montagne, l’altopiano della Sila, una storia importante, grandi filosofi come Pitagora, Gioachino da Fiore, Telesio e Campanella e i talenti contemporanei. “La Città del sole” dov’è stata inventata? In Calabria, poi, esistono tre università di livello, a Cosenza, a Catanzaro e a Reggio, ciascuna con propri punti di forza. In sintesi, la Calabria non ha niente da invidiare ad altre regioni, ad altri posti. Allora bisogna essere orgogliosi di quello che si ha, cercando sempre di migliorare».
Professore, pensa che i calabresi non considerino Pitagora, Telesio, Gioacchino, il mare e le montagne, oppure pensa che la situazione economica, sociale e culturale della Calabria dipenda da una mentalità locale dominante, ostile alla cooperazione, all’impegno e al merito individuale?
«Secondo me, manca la consapevolezza delle risorse del territorio. Una delle ragioni per cui mi trovo in Calabria è la cordialità delle persone. Ho trovato le porte aperte anche da sconosciuti, che erano molto gentili con me e con altri ragazzi provenienti dall’estero. Quando scegli dove vivere, non ti basi solo sulla qualità del cibo o sulla remunerazione del lavoro. La vita è complessa e in ogni posto noi verifichiamo diversi criteri che ci soddisfano oppure non ci piacciono: qualcuno potrebbe essere più significativo, qualcun altro potrebbe esserlo meno. Poi ognuno guarda la sua rosa di preferenze e quindi sceglie dove stare. Chi predilige una città industriale, di grandi dimensioni, sarà propenso a restarci. Per carattere, io sono una persona che deve riflettere, stare tranquillo e non avere disturbi esterni. Quindi, per me la Calabria è un paradiso. Prima vivevo in una città di un milione e mezzo di abitanti e impiegavo più di un’ora per andare a lavorare e lo stesso per tornare. Se vai a New York o in California, non hai un ambiente tranquillo, non hai la calma che ti serve a riflettere. Ognuno sceglie per sé il posto che ritiene più adatto alle proprie esigenze».
Lei ha scelto la Calabria perché la ritiene a misura d’uomo?
«Esattamente, a misura d’uomo. Sono un professore universitario, qui l’università è organizzata bene e offre ciò che un insegnante desidera. Sono arrivato con una borsa post-doc. All’epoca esisteva ancora l’Unione Sovietica, c’erano solo due borse per matematici da scambiare con l’Italia, io ne vinsi una e la concorrenza, come può immaginare, era altissima. Arrivai, andai avanti con alcuni contratti e poi in Russia diventai ordinario molto presto, grazie alla mia attività di ricerca internazionale. Pertanto, nel 2002 l’Università della Calabria mi chiamò per chiara fama e presi servizio».
Professore, «molto presto» vuol dire a 30 anni?
«A 32 anni. Ho preso l’abilitazione a Mosca, nella migliore università del Paese. In Calabria arrivai nel dicembre del 1990. Prima ebbi la borsa di studio di cui le ho detto, poi alcuni contratti con l’Università della Calabria e con il Cnr. Andavo sempre avanti e indietro e continuavo la carriera in Russia. Dopo uscirono le chiamate per chiara fama e io fui chiamato. Se non sbaglio, ero il più giovane tra tutti i professori allora reclutati in questo modo. Poi nell’Università della Calabria ho incontrato persone molto lungimiranti, come i rettori Pietro Bucci, Giuseppe Frega e Gianni Latorre, come Manlio Gaudioso, Mimmo Saccà e tanti altri».
Come era allora l’Università della Calabria e com’è invece oggi, cioè come si è evoluta nel corso degli ultimi 30 anni?
«Scherzando, si può dire che ora l’Università è diventata un chilometro e mezzo più lunga. Quando sono arrivato, il ponte dell’Università della Calabria era ancora in costruzione. Quasi tutto era concentrato nel polifunzionale. Poi l’Università ha avuto una crescita pazzesca e devo dire che in pochi anni, siamo arrivati, in diverse materie, a livelli altissimi, mondiali: in Informatica, in Ingegneria informatica in primis. Quest’ultima è la branca che conosco meglio, ma aggiungo anche la Chimica, la Fisica e anche altre materie che conosco un po’ meno, perché la nostra Università della Calabria è un ponte lungo un chilometro e mezzo, come le avevo detto. Io sono a un’estremità e quindi conosco un po’ meno le personalità che studiano le materie all’altra estremità del ponte».
In un suo recente saggio, il suo collega Domenico Cersosimo, economista, ha ricordato l’intuizione di Beniamino Andreatta, che volle fondare un’università per professioni tecniche. Allora la classe dirigente calabrese esprimeva perlopiù altri professionisti, per esempio avvocati. Condivide l’opinione di Cersosimo?
«Mi viene difficile giudicare, perché io sono arrivato 30 anni fa, non 50 anni fa. Posso però dire che ora l’Università della Calabria è un ateneo completo, c’è il lato di Economia con eccellenze come il professor Cersosimo stesso, Maria De Paola, Davide Infante. Poi ci sono le facoltà letterarie, l’arte, ci sono anche le parti scientifiche molto quotate. Quindi io direi che ora l’università è veramente completa e, in particolare, con il lato ingegneristico molto forte».
Parliamo un attimo del suo lavoro. Io vorrei che lei spiegasse, in maniera semplice, come se parlasse a un bambino, che cosa è l’Infinity Computer, che lei ha inventato proprio nell’Università della Calabria.
«Premetto che sono arrivato all’Università della Calabria come specialista in Ottimizzazione Globale e che negli anni ne ho addirittura presieduto la Società Internazionale. Mi invitarono a insegnare nell’ateneo calabrese proprio per i miei risultati in questo campo, molto interessante e in cui continuo a lavorare anche oggi. Però, quando fui invitato per chiara fama, la situazione era diversa. Ora, cioè, gli scienziati sono costretti a scrivere moltissimo e questo non è sempre un bene, perché a mio avviso bisognerebbe scrivere di meno ma pensare bene su ogni articolo. Allora, diventato professore ordinario, ho voluto prendere un periodo di riflessione per cercare di capire come realizzare qualcosa di insolito, di grande. All’epoca, in questo mio campo tradizionale di Ottimizzazione Globale, avevo fatto vedere di essere abbastanza bravo e volevo fare qualcosa di più importante. Quindi ho cominciato a studiare l’infinito. Ho visto che ci sono dei problemi non risolti da migliaia di anni. Nel merito basta menzionare i paradossi famosi di infinito e infinitesimo, da Zenone a Galileo Galilei, a Hilbert eccetera».
Per cui?
«Io, invece, essendo un mezzo informatico, mezzo matematico, ho cercato di guardare il problema dal punto di vista computazionale e di introdurre un nuovo tipo di supercalcolatore in grado di lavorare con numeri che possono avere diversi parti infinite ed infinitesimali. Tutti i computer tradizionali lavorano solo con i numeri finiti; io, invece, ho generalizzato il concetto di numero che mi ha permesso di creare questo particolare supercomputer. In breve, i numeri possono avere, come detto, diverse parti infinite, possono avere o non avere una parte finita e diverse parti infinitesimali. Ecco, l’Infinity Computer è in grado di lavorare con tutti questi numeri. Non solo ho fatto questa proposta, ma l’ho anche brevettata in diversi Paesi. Adesso esistono dei simulatori che usano questo calcolo e in hardware, proprio come chip, questo tipo di calcolatore può essere fatto in pochi mesi. Ci vogliono chiaramente degli investimenti e spero che vogliano investirci sopra sia la Regione, sia la Provincia che gli investitori nazionali e internazionali. Così la Calabria sarebbe veramente all’avanguardia. Noi siamo una piccola Silicon Valley, perché Ntt Data e altre aziende informatiche sono già nel territorio. Per realizzare il proprio supercomputer ci vuole veramente poco e sarebbe veramente una rivoluzione, un grande vantaggio per la Calabria e per l’Italia».
Che vantaggi possono dare questi computer e quanto bisognerebbe investire per costruirli?
«Si potrebbe partire con un finanziamento di poche decine di milioni di euro, in modo da raggiungere, poi, l’autosufficienza economica. Nella matematica tradizionale e nel calcolo tradizionale noi non siamo in grado di lavorare con le cose che tendono a zero, che diventano molto piccole o tendono a essere molto grandi. I computer tradizionali hanno questo muro di rappresentazione che non riescono a superare. Nell’Infinity Computer, invece, non ci sono tutti i problemi con i limiti e con le forme indeterminate – tipo che cos’è infinito meno infinito o infinito diviso infinito – che esistono nella matematica tradizionale. Quindi, da una parte, c’è, nell’Infinity Computer, una semplificazione notevole di calcolo; dall’altra parte, c’è un’accuratezza mai vista prima e la possibilità di creare algoritmi potentissimi di natura completamente diversa. Per esempio, il professor Renato De Leone, dell’Università di Camerino, ha fatto vedere che in certi casi i computer tradizionali sono in grado di ottenere solo risultati approssimati, dopo lunghi processi iterativi; mentre con l’Infinity Computer si ottengono risultati esatti senza processi iterativi. Questa è sicuramente una rivoluzione. La professoressa Francesca Mazzia, dell’Università di Bari, ha fatto lo stesso con delle equazioni differenziali: ha mostrato che per l’accuratezza e la velocità di soluzione di queste equazioni, molto importanti nel calcolo scientifico e nelle simulazioni molto pesanti, l’Infinity Computer dà vantaggi incredibili».
Ci sono vantaggi anche nella didattica?
«Certamente. L’insegnamento della Matematica e dell’Informatica di cui sto parlando ora avviene in diversi Paesi: in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Libano. Tenga conto che sono stati fatti studi anche in Calabria, in particolare a San Giovanni in Fiore, grazie alla professoressa Annabella Astorino. In breve, ora è possibile semplificare il programma scolastico di Matematica e anche rinforzare notevolmente la potenza di calcolo, con questo nuovo paradigma computazionale. Proprio quest’anno è uscito il libro del professor Davide Rizza, che insegna nell’Università di East Anglia, a Norwich in Inghilterra, intitolato “I primi passi nell’Aritmetica dell’Infinito”. Il volume spiega come insegnare questa nuova Matematica e questa nuova Informatica. Quindi, noi stiamo davanti a un vero cambio del paradigma di calcolo, sia in Matematica che in Informatica».
Professore, questo cambio di paradigma che cosa può determinare a livello di applicazioni pratiche? Penso alla medicina, penso alla stessa Intelligenza artificiale, penso ai processi della transizione digitale.
«Ovunque si richieda un’alta accuratezza di calcolo, ci sarà un vantaggio. Per esempio, nel caso di un simulatore o di un videogioco, c’è una grande quantità di calcoli risolti con equazioni differenziali. Quindi, l’Infinity Computer può trovare applicazione in tutti gli ambiti in cui, con i modelli matematici, viene scritto il software per la modellizzazione. Pensi già alla Formula 1 o ai simulatori di volo. Poi consideriamo l’insegnamento. Gli studenti non avranno bisogno di studiare una parte della Matematica, per esempio i limiti, inventati 200-300 anni fa e ormai completamente obsoleti. Questi concetti saranno sostituiti dai nuovi, che permetteranno di ridurre una parte dello studio della Matematica tradizionale e di introdurre nuove parti più interessanti. Non so se lei ha presente il gioco di Tetris?».
Sì, certo.
«In questo gioco c’è un bicchiere in cui cadono dei pezzettini che vengono ruotati. Poi, in un certo momento, arriva un pezzettino e tutto va giù. Quindi io vedo la scienza più o meno in questo modo: arrivano dei fatti scientifici, nel bicchiere della conoscenza, che non vengono spiegati dalle teorie esistenti; poi arriva un pezzettino che si mette al suo posto e tutto va giù, sicché questi fatti vengono spiegati e si riparte con un nuovo paradigma. Nel lontano passato e negli ultimi decenni in particolare, sono stati raccolti moltissimi fatti sul calcolo, ma non spiegati, con diversi paradossi. Ora, con questo pezzettino di Infinity Computer, riusciamo a spiegare tanti paradossi dell’infinito e le forme indeterminate, come a proporre degli algoritmi nuovi, così elevando il livello di conoscenza a un’altezza prima irraggiungibile. Adesso siamo proprio in questo stato».
Una rivoluzione copernicana, professore?
«Esatto. C’è un’altra analogia che propongo di solito. Gli antichi romani non conoscevano lo zero, quindi non riuscivano a calcolare, per esempio, 3-5. Ciò perché il risultato sarebbe stato un numero negativo, che loro non conoscevano né usavano».
Anche il matematico Piergiorgio Odifreddi lo ricorda.
«Sì. Quindi questo che cosa significa? Che i romani senza lo zero non avrebbero potuto costruire neanche il computer, che lo richiede. Poi venne introdotto lo zero e vennero introdotti i numeri negativi. Così sparirono i problemi sui numeri negativi, in quanto fu avviato un calcolo molto più potente. Adesso, noi abbiamo un sacco di problemi con l’infinito e con gli infinitesimi, ci sono le forme indeterminate e limiti che non riusciamo a risolvere, per non parlare dei paradossi della teoria degli insiemi infiniti. Introducendo il nuovo linguaggio, tutto questo sparisce e si aprono porte completamente nuove che noi non possiamo neanche immaginare quanto lontano ci possano portare. L’indiano Brahmagupta, che inventò lo zero nel settimo secolo, certamente non prevedeva l’avvento dei computer, che invece sono qui. Allora, un sistema di calcolo più potente risolve da una parte un sacco di problemi e paradossi tradizionali e, dall’altra parte, apre un portone verso l’ignoto molto interessante. Ecco, noi siamo proprio in questa situazione».
Qual è l’humus, nell’Università della Calabria, in cui si è ritrovato a lavorare?
«Io lavoro a livello internazionale, quindi partecipo molto ai diversi congressi e parlo con i colleghi. Tutto questo è chiaramente molto importante. Però, essendo un matematico, ho dei periodi in cui avverto il bisogno di stare da solo per ore, giorni, a volte mesi, per risolvere dei problemi. Del resto, uno va a parlare con i colleghi quando ha già qualcosa da dire. In molte scienze, la parte individuale è diminuita. In matematica, invece, la parte individuale resta molto importante. Prima bisogna proporre qualcosa, poi la si va a discutere con i colleghi. Comunque, all’Università della Calabria il gruppo di Ottimizzazione è molto forte, c’è un lavoro di squadra ed esiste un confronto, anche con i miei collaboratori. Ci sono, insomma, queste due fasi importanti: una è la fase di riflessione, la fase di preparazione di qualcosa; l’altra è la fase di discussione, per affinare il risultato con le domande dei colleghi».
In questo suo stare da solo, quanto l’ha aiutata la dimensione della Calabria?
«Moltissimo, perché qui, volendo, uno evita le distrazioni che esistono nelle grandi città. Per me la Calabria è stata molto importante, perché ho potuto concentrarmi. Nello sviluppo dell’Infinity Computer, per mesi non ho mangiato, non ho dormito e ho perso diversi chili lavorandoci. Poi c’è stato un lungo periodo, durato anni, di perfezionamento dell’idea attraverso il confronto serrato. Il giudizio dei colleghi e degli allievi ti permette di migliorare l’idea, di capire se funziona o se è una cavolata e quindi hai sprecato il tuo tempo. Capita anche l’abbaglio, infatti».
Professore, cita spesso Pitagora nei suoi interventi pubblici. Chi è per lei Pitagora, un suo collega matematico?
«Per me Pitagora è stato il primo che indirettamente ha apprezzato quello che ho fatto. Nel 2010, ho vinto a Crotone il Premio internazionale per la matematica, dedicato a Pitagora. È stato il primo, grande apprezzamento dei miei risultati legati all’infinito, dal punto di vista dei fatti. Dal punto di vista della filosofia, l’infinito, tradizionalmente, cioè nell’ultimo secolo e qualcosa, è stato sotto la forte influenza dell’idealismo tedesco, il che ha influenzato sia lo sviluppo della matematica che dell’informatica: alti livelli di astrazione che a volte, a mio avviso, perdono il contatto con i problemi reali. Invece, Pitagora e i matematici greci, più tardi e per un certo periodo anche i francesi, erano orientati alla risoluzione dei problemi, non all’astrazione elevata. Quindi, in un certo senso, su un livello diverso sono ritornato a Pitagora».
Cioè?
«Nel senso che vorrei fare dei calcoli che permettono alle persone comuni di migliorare la loro vita. In sostanza, cerco di semplificare e di potenziare il linguaggio che permette la risoluzione di problemi concreti. Non so se sono stato chiaro».
È stato chiarissimo. Diciamo che è un’operazione che nel XII secolo aveva fatto anche Gioacchino da Fiore, utilizzando delle immagini per esprimere concetti complessi in maniera molto semplice.
«Sì, Gioacchino ha cercato di introdurre un linguaggio molto più comprensibile alla gente dell’epoca, ma anche oggi. Anch’io, nei miei articoli, se sono in grado di fare un’illustrazione, la faccio sempre, perché ciò aiuta moltissimo il lettore a capire di che cosa si tratta. In un certo senso io ho fatto come Gioacchino: ho introdotto un nuovo linguaggio che semplifica le cose e, dall’altra parte, evita un sacco di gravami e permette di risolvere problemi completamente diversi, che prima non erano neanche immaginabili».
Professore, di recente ha detto di stare attenti all’Intelligenza Artificiale. La vede come un pericolo? Potrebbe sostituire l’intelligenza umana, annientarla, deresponsabilizzare le persone?
«Prima di tutto vorrei dire che il termine «Intelligenza Artificiale» viene molto abusato, in quanto esso indica un insieme di cose e di tecniche diverse. Intanto bisognerebbe separare un pochino, come si dice, i tortellini dalle mosche. Bisognerebbe, cioè, separare le diverse tecniche e capire di che cosa si tratta. Andando al discorso più generale del web, sicuramente vanno posti limiti stringenti su che cosa si possa fare e che cosa non si possa fare. Inoltre, ci devono essere anche degli strumenti di controllo, altrimenti il rischio è molto alto. Da padre di due bambini, io sono molto preoccupato degli scarsi controlli su Internet, perché i minori possono fare delle cose che secondo me non dovrebbero fare. Non sto parlando della censura, ma comunque non è possibile che una mente impreparata si avventuri in siti che non sono per cervelli senza esperienza».
Prima lei ha accennato al fatto che oggi gli scienziati sono costretti a scrivere di più e mi ha detto pure che, giustamente, bisognerebbe scrivere bene piuttosto che tanto. Con la riforma universitaria, quindi con la semestralizzazione dei corsi, è stato tutto compresso, è cambiato anche l’insegnamento, è cambiata la didattica. Come vede, da professore universitario, questa trasformazione?
«Ora all’università si insegna troppo: 120 ore di insegnamento sono troppe. Quando sono entrato all’università, ho fermato un contratto per 60 ore di insegnamento e questo andava bene. Poi, senza battere ciglio, ci hanno raddoppiato il carico didattico e nessuno ha detto qualcosa. Secondo me, invece, questo è sbagliatissimo. Non ci sono solo queste 120 ore, ma ci sono anche le ore di preparazione, le ore dei controlli e diverse sessioni di esame. Ora ci sono sette sessioni per ciascuno dei miei tre corsi. Quindi, avendo ogni anno 200, 250 studenti, fare sette sessioni di scritti e orali per ciascun corso è molto faticoso. La riforma, che ci costringe a insegnare di più, indebolisce la ricerca: il tempo in più che noi dedichiamo alla didattica è tempo in meno per la ricerca».
Lei ha espresso un giudizio lusinghiero verso la Calabria, anche per il passato glorioso con Pitagora, Gioacchino da Fiore, Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e altri grandi pensatori. Oggi, però, la regione ha una condizione economica e sociale segnata da dati allarmanti e dallo spopolamento. Soprattutto, spesso i giovani sono costretti a patire o a pietire. Come la vede? Che cosa si potrebbe fare, dal suo punto di vista di cittadino, più che di accademico e di scienziato?
«Secondo me, bisognerebbe reinventare dei meccanismi di meritocrazia. I concorsi per entrare nell’amministrazione pubblica sono troppo macchinosi e, quando uno è entrato, poi non c’è possibilità di licenziarlo, se non lavora e non produce. Questo secondo me è profondamente sbagliato. Ora uno entra e poi comincia a girare i pollici, il che, inevitabilmente, dà un sacco di inefficienza. Allora bisogna passare alla meritocrazia. Se uno non lavora, non può percepire lo stipendio. Uno deve lavorare e ci devono essere dei meccanismi di controllo molto severi, anche per diminuire gli sprechi. Negli Stati Uniti, uno va avanti non perché è il cugino di un politico, ma perché è bravo. Quindi bisogna cambiare le leggi, portandole in questa direzione».
Non la disturba il fatto che tante persone, in Calabria, siano entrate nell’amministrazione pubblica soltanto perché avevano fatto rumore?
«Parlo di ciò che conosco, cioè del mondo universitario. Dico che va cambiato il sistema: bisognerebbe avere la possibilità di assumere, soprattutto nella ricerca, le persone che servono, che possono portare avanti quel lavoro e quell’attività, e di licenziarli se fanno i lavativi. Non sempre i concorsi garantiscono questo risultato. Se mi serve uno specialista che lavora in Inghilterra o in Belgio, perché ha conoscenze e competenze che mi servono, devo avere lo strumento per prenderlo nel mio laboratorio. Adesso io non ho questo strumento, con le regole vigenti».
In particolare?
«Nell’università servono degli anni per preparare una persona nella direzione specifica di un laboratorio o di un gruppo di ricerca. I concorsi pubblici ora hanno regole troppo macchinose e potrebbe succedere, e succede spesso, che il concorso non sia vinto da un allievo preparato da anni per svolgere un determinato ruolo in un laboratorio, ma che sia vinto da una persona, magari bravissima, senza la specializzazione nella direzione desiderata. Allora, invece che rinforzare l’area di conoscenza del laboratorio, questa risorsa farà cose completamente diverse. Dall’altra parte, un direttore di Dipartimento deve avere la possibilità di rinforzare certe aree di ricerca in cui le conoscenze locali non sono sufficienti e, quindi, di invitare persone da fuori. Queste possibilità al giorno d’oggi esistono, ma sono molto limitate».
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