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L’INTERVENTO

«Alla fame non si può dire aspetta»

La riflessione di Sandro Principe all’indomani della scomparsa di Henry Kissinger, uno dei personaggi più influenti del ‘900

Pubblicato il: 10/12/2023 – 9:52
di SANDRO PRINCIPE
«Alla fame non si può dire aspetta»

RENDE È morto all’età di 100 anni Henry Kissinger. Nato tedesco, ebreo, si trasferì da giovanissimo negli USA   per sfuggire alla persecuzione nazista e si dedicò da subito agli studi storici. La storia era vista da Kissinger come base per l’analisi geopolitica degli equilibri e delle criticità globali dopo la Seconda Guerra Mondiale. Era affascinato dai lavori e dai risultati del Congresso di Vienna, che determinò la restaurazione dopo la Rivoluzione Francese e l’epopea napoleonica. Ma la restaurazione non fu un puro e semplice ritorno all’Ancien Regime, ma la ricerca di un ordine ed un equilibrio tra le potenze europee per garantire la pace. Costruita sull’asse portante della Santa Allenza tra gli imperatori di Russia ed Austria, il re di Prussia e il Regno Unito, coinvolse e non umiliò la Francia sconfitta, riaffidata al Borbone; Francia rappresentata al Congresso da Talleyrand, grande diplomatico buono per tutte le stagioni, che seppe tutelare gli interessi del suo Paese e che, insieme al Principe di Metternich, dominò la scena. La pace fu garantita a livello continentale per 99 anni (a parte la guerra di Crimea, le guerre del Risorgimento Italiano e il conflitto Franco-Prussiano che fece nascere l’Impero Tedesco). La restaurazione non garantì, però, l’ordine sociale interno ai paesi partecipanti al congresso di Vienna, tant’è che nel corso del secolo si verificarono i moti del ‘21, del’30/31 e del ‘48 che causarono, tra l’altro, la fine di Metternich, a voler tacere della Comune di Parigi del ‘71 e della rivoluzione Russa del 1905. Kissinger vide negli accordi di Yalta tra Roosevelt, Stalin, Churchill e De Gaulle, che divise il mondo in due zone di influenza (una occidentale, a guida USA, l’altra sotto la leadership sovietica), una riedizione a livello globale del congresso di Vienna; accordi da tutelare e rispettare per garantire la pace ed evitare la terza guerra mondiale. Gli accordi di Yalta, e il cosiddetto “equilibrio del terrore” derivante dal possesso dell’arma atomica da parte delle due super potenze, hanno assicurato l’ordine mondiale e pace sicura per 45 anni e cioè sino alla fine dell’Unione Sovietica. Ciò non significa che non vi siano state guerre locali e crisi complicate e pericolosissime (Suez, Ungheria, Cuba, Berlino); ma applicando i principi di Yalta tutto si è risolto per il meglio. L’implosione dell’URSS ha privato l’America dell’interlocutore di pari livello e potenza e, pertanto, gli Stati Uniti ritennero nel nuovo scenario globale di poter determinare da soli i destini del mondo. Gli stessi americani, successivamente, hanno capito che non è così, che da soli non ce l’avrebbero fatta, anche perché la mancanza di un competitor aveva risvegliato e fatto risorgere la fazione isolazionista, sempre presente nella società nordamericana. Kissinger, chiamato alla guida della diplomazia americana dal Presidente Nixon, prima come consigliere della sicurezza nazionale e poi come segretario di stato, ha applicato i principi appresi studiando il congresso di Vienna ed attuato e rispettato le clausole dell’accordo di Yalta. Quando, però, nel mondo comunista si accentuarono i contrasti tra russi e cinesi, Kissinger non esitò ad aprire alla Cina, stipulando accordi santificati dallo storico incontro tra Nixon e Mao Tse Tung. Oggi, dopo ventidue anni dalla fine dell’URSS, la Cina è la seconda superpotenza del pianeta e, in futuro, il bipolarismo Russo/americano dei tempi della guerra fredda, che ha assicurato decenni di pace, potrebbe rivivere come bipolarismo americano/cinese, sollevando gli Stati Uniti dall’insostenibile ruolo di unico reggitore del mondo. E, a ben vedere, le azioni negative attribuite a Kissinger, come l’ispirazione ed il sostegno al generale golpista Pinochet per defenestrare Allende, sono coerenti con quanto deciso a Yalta, poiché l’America Latina apparteneva alla sfera d’influenza statunitense. Ed, infatti, al contrario, in precedenza, prima in Ungheria e, successivamente, a Praga, i sovietici poterono indisturbati inviare i carri armati dell’Armata Rossa per reprimere le rivolte contro i regimi comunisti. Kissinger credeva in un mondo ordinato, in pace per la prosperità, guidato con equilibrio da efficienti oligarchie alla testa delle grandi potenze, legate da chiari accordi per governare il mondo. Era, infatti, a mio modesto avviso,” il nostro eroe” un erede autentico delle teorie “elitiste” di Mosca, Pareto e Michels, studiosi della formazione delle classi dirigenti dei partiti politici e degli stati, per giungere alla conclusione che sono le oligarchie i veri fattoti della storia. La questione sui veri fattori della storia si pose già tra gli studiosi della Repubblica Romana. Una corrente di pensiero, infatti, autorevolmente rappresenta da Ronald Syne con il suo libro “Roman Revolution”, ritiene che il successo di Roma si deve ad una colta ed efficiente aristocrazia, composta da grandi famiglie (gens), ritenuta la migliore classe dirigente; un’altra, invece, rappresentata, ad esempio, dal Momigliano, che, in esilio a Londra recensì il libro di Syne, era convinta che i successi di Roma erano da ascrivere a merito delle legioni, composte da masse di sani contadini italici militarizzati. Prodel, nel suo lavoro “Il Mediterraneo al tempo di Filippo II”, si pose il problema se fattore della storia sono le oligarchie o le masse e teorizzò tre tempi della storia: ad un primo tempo della storia caratterizzato dall’uomo immobile nella realtà fisica, Prodel fa seguire un terzo tempo veloce, nervoso in cui gli eventi si susseguono rapidamente;  è evidente che in un contesto così tumultuoso e relativamente breve sulla scena la fanno da protagoniste le oligarchie, al punto da far ritenere che esse determinino il movimento storico. Ma, in mezzo, sta una storia lenta, che registra un movimento a volte impercettibile che viene dal basso, il movimento dei gruppi e dei raggruppamenti sociali, che diviene il fattore della storia, spinto dall’esigenza di uguaglianza. Già Toqueville, antidemocratico e conservatore, scriveva che l’aspettativa di uguaglianza è un istinto insopprimibile come la fame. Alla fame non si può dire aspetta. Dunque, possiamo anche esser attratti dalle esibizioni quotidiane delle oligarchie in tv, sulla rete o sui giornali, avendo quindi l’impressione della loro onnipotenza. Ma anche le oligarchie debbono rassegnarsi che sono le masse, spinte dal bisogno di uguaglianza, a determinare il moto storico.

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