LAMEZIA TERME Bassa occupazione, differenze salariali, difficoltà a fare carriera e a conciliare le esigenze di lavoro e tempi della vita. Sono tanti e tali gli aspetti che fanno comprendere che la Calabria non sia una regione per le donne lavoratrici. Incrociando diversi dati che descrivono le condizioni occupazionali e sociali femminili, emerge plasticamente come la Calabria resti ancorata ad una visione sostanzialmente patriarcale della società. In cui sono gli uomini prevalentemente a detenere il potere, sia sotto il profilo della leadership politica ed amministrativa delle istituzioni, che nell’occupazione di ruoli apicali delle società pubbliche e private. Ma anche più banalmente a riuscire a spuntare stipendi più dignitosi e condizioni di lavoro migliori. Se non addirittura ad ottenere un semplice posto di lavoro. Un quadro in cui le donne continuano a rimanere ai margini dell’economia reale e delle istituzioni pubbliche e sempre più spesso vengono anche espulse dal mercato del lavoro da cui sono costrette ad allontanarsi per riuscire a sopperire ad esigenze che il territorio non riesce a garantire.
Una regione che così connotata, trasforma lo sciovinismo maschile a paradigma dell’organizzazione della società. Un’accezione che si tramuta nei fatti in negazione costante di diritti per le donne che vorrebbero intraprendere una carriera lavorativa o, ancor più semplicemente, mantenere il proprio posto di lavoro. Relegandole in quei ruoli arcaici di mogli e madri.
Una concezione foriera tra l’altro di una subcultura che sta alla base della violenza di genere. Una triste tesi comprovata dai dati che dimostrano senza timore di smentita, quanto sia fondata la condizione di negazione dei diritti per quelle donne che abbiano desiderio di impegnarsi nella società contribuendo, con il proprio lavoro, al benessere personale, ma anche alla crescita collettiva. Senza quel contributo infatti diminuisce esponenzialmente il livello di ricchezza complessivo nella regione e la possibilità di ridurre il gap con altre aree del Paese.
Già i dati sull’occupazione restituiscono il quadro d’assieme del divario di genere che caratterizza il mercato del lavoro in Italia ed in Calabria in particolare.
La media delle persone occupate nel Paese, secondo l’ultima stima dell’Istat, è pari al 70,8% della popolazione maschile nella fascia tra i 15 ed i 64 anni. Mentre tra le donne il tasso scende al 52,7%. Un divario di genere che diviene ancor più marcato se si analizzano i numeri del mercato del lavoro calabrese.
Stando alle elaborazioni dell’Istituto nazionale di statistica, in Calabria nella fascia tra i 35 ed i 49 anni (cioè l’età centrale nel mondo del lavoro) risultano occupate poco più di 4 donne su 10 contro il 66,4% degli uomini. In quella stessa fascia di età nel resto del Paese la media sale al 64,5% delle donne e all’85,9% degli uomini.
E anche l’andamento della disoccupazione segue questa differenziazione di genere e di territorio. Nella regione le donne prive di lavoro, ma in cerca di uno, sono il 16,6% del totale. Quasi il doppio del tasso medio nazionale che si ferma all’8,5% in quella fascia di età centrale per ottenere un posto di lavoro.
Quel che è anche indice dello sconforto che provano le donne in regione è che spesso il lavoro neppure lo cercano. La metà delle calabresi tra i 35 ed i 49 anni risultano inattive nel mercato del lavoro. Il tasso di chi neppure il lavoro lo cerca tra i loro coetanei maschi in Calabria scende al 22,3%. In Italia la percentuale diminuisce drasticamente rispettivamente al 29,4 tra le donne e all’8,8 tra gli uomini. Tutti dati che dimostrano quanto sia difficile per una donna calabrese entrare nel mondo del lavoro, rispetto alle altre aree del Paese che comunque registrano una media inferiore allo standard europeo e non va meglio in confronto alle altre nazioni. Nella classifica 2022 del World economic forum sul gender gap, che monitora l’andamento dell’occupazione tra i generi, l’Italia è al 63esimo posto su 146 Paesi monitorati con un miglioramento stimato di appena 0,001 punti (il punteggio complessivo raggiunge il valore 0, 720 da 0,721 dell’anno precedente). Prima del nostro Paese si collocano nazioni come l’Uganda (61° in graduatoria) e lo Zambia (62°). Nel confronto europeo l’Italia si colloca al 25esimo posto sui 35 Paesi.
Con questi numeri, si comprende come la Calabria, tra le ultime per occupazione femminile garantita sul territorio, resti fanalino di coda non solo in Europa. Dimostrando che al divario di genere si somma anche e soprattutto un divario di territorio.
Ma sono le condizioni imposte alle donne dal mondo occupazionale a rendere complicato per loro l’ingresso nel mercato del lavoro e il mantenimento del proprio posto nelle imprese ma anche nel settore pubblico. Secondo il Sigi (Social Institutions and Gender Index) il 40% delle donne vive in contesti altamente discriminatori in cui prevalgono diseguaglianze nella distribuzione del lavoro retribuito, nei quali si registra una diseguale distribuzione del lavoro retribuito, con effetti tangibili sulla “segregazione” lavorativa orizzontale (divisioni di genere nelle mansioni occupazionali) e verticale (esclusione delle donne da ruoli di leadership), nonché sui differenziali salariali con gli uomini.
Un aspetto quest’ultimo che se vale nella valutazione complessiva, diviene ancor più stridente al Sud ed in Calabria in particolare. A parità di settimane lavorate ed anzianità di servizio, le donne ottengono redditi più bassi soprattutto nel settore privato del Sud Italia. Stando all’ultimo rapporto dell’Osservatorio dell’Inps, la retribuzione media annua complessiva è di 22.839 euro. Ma mentre per il genere maschile è di 26.227 euro scende a 18.305 euro del genere femminile. Dunque quasi 8 mila euro l’anno in meno per le donne.
Andando alla Calabria che è stabilmente negli ultimi posti nella graduatoria degli stipendi medi e dei redditi pro-capite, la situazione del gender gap pay peggiora.
Nel rapporto Bes dell’Istat, all’interno del dominio “lavoro e conciliazione dei tempi di vita” sotto l’indicatore “dipendenti con bassa paga” in cui si calcola il numero di dipendenti con una retribuzione oraria inferiore ai due terzi di quella mediana di tutti i dipendenti. Il risultato, attesta che si trova in tale condizione il 10,1% dei dipendenti, con oscillazioni regionali fortissime in termini di incidenza: in Calabria si trova in questa condizione il 17,5% delle lavoratrici.
Un quadro che ha ricadute pesanti anche sulle pensioni delle donne. Guardando ai dati Inps, emerge infatti che, nel 2022, alle lavoratrici andate in quiescenza mediamente sono state corrisposte pensioni medie di 1.074,44 euro tra le ex dipendenti private contro i 1.715,05 dei maschi. In Italia rispettivamente sono state di 1.634,88 e 2.206,01. A dimostrazione anche qui che al divario territoriale si somma quello di genere.
Una situazione legata a filo doppio con le peggiori condizioni di lavoro che le donne hanno dovuto subire durante la loro attività. Costrette per esigenze spesso familiari a lasciare prima dei colleghi il lavoro. Le donne, infatti, fanno più frequentemente ricorso alle pensioni anticipate, utilizzando il regime “opzione donna”. Un dato in costante crescita in Calabria. Se nel 2021 erano state 1.529 le domande, lo scorso anno sono salite a 2.055, registrando un incremento pari al 34,4%.
A pesare inoltre sulla condizione femminile è il diverso carico affidato alle donne nella gestione della famiglia e soprattutto dei figli. Stando alle rilevazioni dell’International Labour Organization, il gap di genere sfavorevole alle donne nelle attività non retribuite di cura familiare in Italia sarebbe pari al 23,8%. In particolare le donne dedicherebbero 4,7 ore al giorno, tre volte in più rispetto agli uomini (1,8 ore). La media del gap in questo settore rilevato nei Paesi scandinavi scende al 5-6%. Un risultato positivo per questa realtà ed altre europee, conseguito grazie alla consolidata offerta pubblica di servizi di cura per bambini e persone non autosufficienti. Una condizione in queste realtà che consente una migliore conciliazione dei tempi di vita e lavoro per le donne. Un quadro che, viceversa si ribalta in una regione come la Calabria che offre pochi servizi a questo scopo e che per questo diviene spesso una zavorra insopportabile le madri lavoratrici.
Considerato che ad esempio la disponibilità di posti negli asili nido è tra le più basse d’Italia: 9,5% dei bambini. Un tasso decisamente molto lontano dal target della media europea del 33%. Un dato che ovviamente fa il paio con l’utilizzo dei bonus “Asilo nido” in cui la regione è cenerentola in Italia. Dagli ultimi dati Inps, emerge che appena, il 18% dei piccoli calabresi ha usufruito della prestazione contro la media nazionale già bassa del 34%.
A queste condizioni e con un mercato del lavoro poco sensibile alle esigenze delle donne e delle lavoratrici madri, la conseguenza non può che essere quella di costringerle ad uscire prematuramente dal circuito lavorativo. Gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, indicano che nel corso del 2022 quasi 45mila madri hanno dovuto lasciare la loro occupazione.Mentre i dati dell’Inps, dicono che complessivamente in quell’anno hanno lasciato volontariamente il posto di lavoro oltre 478mila donne. Si tratta del 14,5% in più rispetto all’anno precedente e addirittura il 40% in più del 2020.
La causa primaria di questa drastica scelta è l’arrivo di un figlio. Stando alle rilevazioni dell’Ispettorato nazionale del lavoro: il 58% dei casi di dimissioni vengono presentate da madri lavoratrici o in attesa di diventare per la prima volta. Ma c’è anche una consistente fetta di donne che hanno lasciato il lavoro perché non era compatibile con la cura dei figli a causa della distanza di altri familiari. Ben il 76% dei casi attiene questa scelta. Dimostrazione plastica che se c’è qualcuno nella coppia che deve fare un passo indietro nel mondo del lavoro è la donna.
Anche in tema di dimissioni, la Calabria registra una crescita a doppia cifra fissando il dato record per il Mezzogiorno. Tra il 2021 ed il 2022 hanno lasciato il lavoro in regione ben 11.992 donne. In particolare 5.508 nel 2021 e 6.484 nell’anno seguente, segnando così un incremento del 17,7%. Contro la media nazionale, ricordiamo, del 14,5% e oltre il doppio del sud Italia che si è fermata al 7,6%. Dati che in una regione avara di possibilità di lavoro, dimostrano – se ce ne fosse ancora bisogno – come la Calabria si connoti una terra maledettamente ostile alle donne. (r.desanto@corrierecal.it)
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