“Santa Lucia ccu l’uacchi pizzuti fammi truvà na cosa perduta” (Santa Lucia con gli occhi aguzzi fammi ritrovare quello che ho perso), recita un adagio calabrese dell’immaginario popolare utile a raccontare un documentario ben accolto al Torino Film Festival e recensito con fervore dalle riviste più militanti del panorama italiano. E Santa Lucia ha illuminato l’occhio del regista.
Il 13 dicembre, a Crotone, si accendono i fuochi della tradizione a sera fonda e ancora c’è chi va a lanciare nella grande pira di quartiere l’immaginetta di Santa Lucia per darle nuova vista. Il regista Matteo Russo ha iniziato il suo percorso da ragazzo, fotografando i graffiti sui treni della città. Tra Bologna e New York ha perfezionato tecnica e formazione e ora esordisce con un lungometraggio che merita attenzione e si spera adeguata diffusione.
Nella Crotone che si appresta a celebrare la Calabria mainstream del Capodanno Rai arriva un contrappunto antropologico di degno rispetto. È “Lux Santa” quella di un regista che i fuochi a Santa Lucia li ha accesi da ragazzino a Crotone e che da autore ora li racconta con tutto quello che la modernità si porta dietro. La tradizione annaspa, non tutti partecipano, i problemi sono tanti. Il gruppo di ragazzi non molla. Sono vestiti come i coetanei di una periferia di Parigi, parlano in dialetto autoctono magnificamente sottotitolato. Sono i giovani del Fondo Gesù, periferia di Crotone, città spesso in fondo alle classifiche del buon vivere. Difendono la tradizione perché sono rimasti ragazzi con il senso del gruppo anche al tempo della PlayStation. Molti di loro hanno il padre in carcere (il 45% della popolazione detenuta è meridionale), c’è chi spera in un trasferimento per poter rivedere il genitore dopo due anni, sono padri che scopriamo in angoli ristretti con discorsi di buon senso sulla necessità di non ripetere le loro gesta. A volte riposano al cimitero. Il pretesto di costruire il grande fuoco reperendo legna con tecniche di riuso che da sempre vivono in città accompagna l’esplorazione di una periferia con cieli grigi, fotografia azzurrina per vite al massimo di famiglie numerose in metri quadri strettissimi.
La concorrenza con altri quartieri è vissuta con intensità, nel gruppo la costruzione della piramide accende rivalità personali, la leadership si conquista nelle aree marginali anche con il gergo e la postura.
La scrittura del documentario con il co-sceneggiatore Carlo Gallo era partita su temi alti e demartiniani ma uno sviluppo di due anni vissuti nel quartiere, spesso senza telecamere, ha preso la via giusta. Lupin, Zucchero, Pidux, Citus sono diventati amici del regista. Sono andati a Torino alla prima ma soprattutto sono diventati crew del regista andando a mangiarsi la pizza assieme e disegnando una nuova crotonesità da conoscere e interrogare. Sono dei dimenticati desetiani post moderni questi ragazzi presi dalla vita. Non sono vite degli altri guardate con la lente dell’oculista ma i nipotini degli ultimi di Alessandria Del Carretto che collettivamente nel giorno della festa alzavano l’albero nella piazza del paese.
Tra Godard e Pasolini la camera mostra tanti silenzi, paure, attese costruendo la grande pira di Santa Lucia. Adulti e ragazzi si mostrano con i loro tatuaggi enormi, il murales di Rino Gaetano di Jorit marchia la nuova appartenenza a una comunità aggredita dal degrado urbano. In un quartiere rivale pianteranno una foresta di alberi, ma i ragazzi saranno pronti a bruciarli perché il fuoco rompe l’equilibrio di una vita sospesa tra emarginazione e voglia di difendere il proprio gruppo.
Un vecchio consumato da tabacco e alcool è colui che regge la narrazione del sopravvissuto quando si rubava buon legname alla ferrovia. È sodale con i ragazzi, ne comprende l’opera collettiva, è uno di loro. Ora ci sono i carrelli dei supermercati per trasportare il legno di vecchi armadi e pannelli. Sono i ragazzi di Fondo Gesù a scandire l’ora e un quarto di racconto, insoddisfatti che il sito locale raccontando della festa non ha citato il loro quartiere. Le liti personali vanno messe da parte, si pensa alle cose belle, accendere un fuoco unisce chi lo costruisce dalla notte dell’uomo.
Patriarcato sullo sfondo con le bambine e le ragazze confinate in casa e assenti dalla scena, ma la comunità si ritrova. La sera di Santa Lucia i ragazzi si spargono nel quartiere a invitare tutti al fuoco suonando ai citofoni sgarrupati. Piove, non c’è entusiasmo, ma il miracolo si compie. Alle 20,30 tutto Rione Gesù si ritrova davanti al gran fuoco acceso con un po’ di benzina. Si mangia assieme come si è sempre fatto. Gli occhi dei ragazzi si sgranano davanti alle scintille che volano nella notte di Santa Lucia.
Un tempo avrei parlato di cinema del reale, oggi Adriano Aprà suggerisce che il documentario parla in soggettiva, proprio come ha saggiamente fatto il regista di “Santa Lux” supportato dal sostegno di Rai Cinema e dalla Calabria Film Commission che sostiene opere difficili ma che difficili non sono per nulla. A Crotone, periferia delle Calabria che darà il conto al rovescio del 2024 e che ancora, pur se meno del passato, accende i fuochi a Santa Lucia per ritrovarsi come comunità ibrida di una modernità complessa che coltiva ancora la speranza dell’agire collettivo.
(Foto copertina de Il Crotonese)
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