ROMA «L’unica speranza, ingenua, che nutro adesso è che qualcuno si penta. E che voglia raccontare. Ho sempre la sensazione che molte persone sappiano la verità e non la vogliano dire. Chi non parla spesso lo fa per paura. Ora forse potrebbe farlo. Molti personaggi di questa vicenda sono morti». Le parole, sul quotidiano la Repubblica, sono di Paola Caccia, la figlia di Bruno Caccia, procuratore di Torino ucciso sotto casa il 26 giugno del 1983. Il commento giunge a seguito della riapertura, a Milano, delle indagini sul delitto e dopo la decisione del gip Mattia Fiorentini che ha archiviato il fascicolo a carico di Francesco D’Onofrio, ex militante di Prima Linea, sospettato di essere uno dei killer. «Questa ultima volta gli inquirenti, e parlo della procura generale di Milano – prosegue la figlia del magistrato – hanno lavorato bene. Il problema è che queste cose andavano fatte trent’anni anni fa». «Seguo altri processi di rilevanza nazionale, importanti – aggiunge Paola Caccia – e vedo che sono accomunati da alcune stranezze. Spariscono l’agenda rossa di Borsellino, il pc di Falcone e le chiavi della cassaforte di mio padre. Spesso succede che i fatti emergano in altri processi. Il nostro avvocato Fabio Repici per esempio aveva trovato un indizio in un procedimento a Messina. Un’intercettazione sulla falsa rivendicazione delle Brigate rosse. Succede, a volte. E spero che possa accadere anche a noi». (redazione@corrierecal.it)
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