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Costo del denaro elevatissimo in Calabria, Dacrema: «Qui si avvertono rischi maggiori»

Intervista all’economista milanese che insegna all’Unical: «Nel 1999 mi sono innamorato di una studentessa e non sono più andato via»

Pubblicato il: 15/12/2023 – 7:16
di Emiliano Morrone
Costo del denaro elevatissimo in Calabria, Dacrema: «Qui si avvertono rischi maggiori»

Pierangelo Dacrema insegna Economia degli intermediari finanziari nell’Università della Calabria. Come il matematico Yaroslav Sergeyev, arrivò nell’ateneo di Rende (Cosenza) una trentina di anni fa, poi si innamorò del territorio e ci rimase, affascinato dalla bellezza e varietà del paesaggio circostante. L’economista sposò una sua allieva e nel 1999 l’ex ministro Giacomo Mancini, allora sindaco della città, lo volle come assessore ai Trasporti del Comune di Cosenza.
Dacrema ha un pensiero originale, non schematizzabile né allineato. Padano, viene dalla Bocconi ma ha scritto libri di tutt’altra ispirazione culturale (e sociale): da “La dittatura del Pil” al romanzo economico “Marx & Keynes”; da “Etica dei vizi” a “La morte del denaro”, a “Conversazione tra un economista e un poeta”, insieme al compianto Franco Dionesalvi.
Con il professore oggi parliamo del costo del denaro in Calabria – tra i più alti d’Europa, ripete l’imprenditore calabrese e testimone di giustizia Antonino De Masi – e discutiamo della prospettiva di mondo sganciato dall’idolatria dalla moneta; dell’utopia di un sistema economico più sensibile alla qualità del lavoro e al senso profondo della vita, dunque in certo modo poetico; delle strade della tecnologia rispetto al futuro della Terra, segnato dalla «morte del Sole», e del cammino dell’umanità davanti all’ipotesi che la storia possa essere travolta, cancellata dagli eventi.

Mi ha sempre incuriosito il suo approccio rispetto all’economia, anche di tipo filosofico.
«Consideri che il fondatore dell’economia, Adam Smith, non a caso, era un professore di Filosofia morale. È grave che la disciplina economica abbia da molto tempo abbandonato la filosofia».

Perché in Calabria il costo del denaro è elevatissimo? Per un mutuo di 150 mila euro, infatti, il cittadino calabrese paga una rata mensile superiore di 200 euro rispetto a quella di un cittadino che risiede a Bologna. Non è un assurdo?
«È spiacevole, addirittura strano. Ma le assicuro che è del tutto spiegabile in base alle regole del gioco, di funzionamento della nostra economia. La maggiorazione del costo del denaro rispetto alle altre zone d’Italia è spiegabile alla luce del rischio. Il costo del denaro varia a seconda della percezione del rischio, che in Calabria è percepito come molto più elevato. In questo senso, ci troviamo davanti a un fatto del tutto normale: è vero che il rischio è più elevato, perché le imprese, poche e piuttosto piccole, hanno più rischi di un’azienda cresciuta, le cui dimensioni in qualche modo la proteggono. Questo è un primo importante fattore. Chi presta il denaro avverte in Calabria un rischio maggiore che altrove, sicché applica una maggiorazione del costo e questo rende ancora più costoso, ancora più rischioso il prezzo. Più il prezzo è costoso, più diventa rischioso sul piano del rimborso».

Allora la vicenda si complica.
«Qui entra in gioco il secondo fattore aggravante, in termini di ulteriore maggiorazione del costo del denaro. Quando un prestito diventa – in virtù di una serie di circostanze e situazioni di mercato – più difficile da recuperare, entra in gioco la magistratura, entra in gioco la giustizia. In Calabria, i meccanismi della giustizia sono più lenti che altrove. Quindi, non solo c’è la percezione di un maggior rischio, ma c’è anche un dato oggettivo di maggiori difficoltà nel recupero di un credito malato».

Però è un’assurdità.
«Ed è ingiusto. Sul piano logico, poi, è poco spiegabile il motivo per cui una banca di Cosenza o Catanzaro si comporti come una banca di Berlino o di Francoforte. Non ha senso, perché le regole del gioco dovrebbero essere diverse, in presenza di una zona molto industrializzata e abituata a un rapporto spigliato col mondo creditizio. Il denaro dovrebbe essere più paziente, laddove esistono difficoltà economiche oggettive, laddove le condizioni dello sviluppo industriale sono diverse».

Professore, ha spiegato benissimo come funzionano le regole del gioco. Ma con queste regole, peraltro con lo Stato che sembra distante rispetto al meccanismo che ha riassunto, non c’è il rischio che chi ha bisogno di un prestito si rivolga alla criminalità organizzata, che a volte ha tassi anche più bassi?
«Certo. Se questo rischio è presente ovunque, in Calabria è più elevato e allora si può finire più facilmente nelle mani della criminalità organizzata o nella morsa di un usuraio. Questo è il costo del funzionamento della nostra economia, che purtroppo va così».

Qual è il suo punto di vista al riguardo?
«Io ho un orientamento del tutto diverso. Tuttavia, secondo il pensiero economico attuale, le cose devono funzionare in questo modo».

Come potrebbe intervenire lo Stato su questo problema?
«Potrebbe elargire somme destinate a riparare le banche da questo maggior rischio, in modo che siano tagliati i tassi di interesse attraverso forme di agevolazione creditizia. Questo è uno strumento. Un altro potrebbe essere dettato da parte della Banca centrale europea, che ormai governa tutta l’Eurozona anche in termini di vigilanza. La Bce potrebbe indurre a comportamenti diversi delle banche».

Diversi in che senso?
«Diversi nelle aspettative del recupero. Un credito che va in sofferenza in un paio d’anni, per fare un esempio, potrebbe invece finire in sofferenza nell’arco di cinque anni. Ciò perché nell’arco di cinque anni si potrebbe intervenire o con il denaro nell’immediato, per pagare i costi derivanti dagli interessi bancari, oppure attraverso una regolamentazione diversa da parte dell’organismo di vigilanza, cioè la Bce e le sue varie appendici».

Perché di questi aspetti non se ne parla oppure se ne parla poco?
«Perché, in generale, la sensibilità del mercato finanziario è della natura cui accennavo prima. In breve, si ritiene che sia giusto così. Siamo in un ambito teorico di tipo neoclassico, in cui conta il gioco della domanda e dell’offerta. Allora non ci sono interventi esterni, sul presupposto che tutto viri verso un riequilibrio automatico. Questo meccanismo di tipo neoclassico è stato fortemente criticato da un grande economista del XX secolo, John Maynard Keynes, il quale ha sostenuto che invece questi riequilibri possono richiedere anni o decenni. Keynes diceva che “nel lungo periodo siamo tutti morti”. Allora a che cosa serve pensare che ci sia un riequilibrio nell’arco di una vita? Si è perso in partenza, abbiamo perso in partenza. Lo squilibrio che si crea sul mercato del lavoro in Calabria, per esempio, potrebbe durare tantissimo tempo, con un riequilibrio a distanza di decenni o addirittura di secoli. Quindi l’economia è un modo di pensare. Dietro a un pensiero virtuoso, c’è un’azione virtuosa; dietro a un pensiero sbagliato, c’è un’azione sbagliata».

Anni fa lei scrisse un libro originale, “La morte del denaro”, per molti versi ritenuto provocatorio. Nel volume, ha sostenuto che il denaro può essere abolito, per avviare un’economia nuova. Ne attualizzerebbe il contenuto, dati gli effetti della pandemia e delle guerre successive?
«Da molti colleghi, quel mio lavoro è stato considerato un’utopia o una semplice provocazione. Io non l’ho mai pensata così. L’utopia ci sta tutta, ma era utopia, duemila anni fa, l’idea che gli uomini si mettessero a bordo di un aeroplano e volassero. Quindi ci sono le utopie finte, cioè quelle che si realizzano, e ci sono invece le utopie vere, quelle che non si realizzano mai; per esempio, l’idea di una giustizia umana perfetta. Nel periodo del Covid, l’Europa non si metteva d’accordo e le aziende dovevano sopravvivere. Il sistema doveva poter funzionare senza scosse, cioè senza l’intoppo del circuito finanziario. Ecco, quello sarebbe stato il periodo ideale per sperimentare un’economia post-monetaria. I drammi e le crisi che viviamo oggi, anche in termini di profonde disparità di ricchezza a livello nazionale o internazionale, sono cause di disagio e di tensioni sociali. E le tensioni sociali prima o poi esplodono, si trasformano in qualcosa di brutto».

E quindi?
«Secondo me, superare il sistema della moneta è un’idea ancora più applicabile oggi che una ventina di anni fa, quando nel 2003 scrissi “La morte del denaro”. Sono convinto che sia un’idea attorno a cui dovrebbe svilupparsi un po’ di dibattito. È un’idea che dovrebbe essere considerata con più attenzione. Probabilmente, non sono ancora maturi i tempi e l’elemento di fondo, che sostiene la ragionevolezza di una economia post-monetaria, è un ragionamento sui costi immani del meccanismo della moneta. C’è un terzo della popolazione lavorativa mondiale che non fa nulla di concreto in termini di utilità diretta, di produzione diretta di beni e servizi. La disoccupazione è pure grave, perché un disoccupato non è privo dell’energia, della capacità di lavorare, ma è semplicemente tagliato fuori dal circuito del denaro. Inoltre, il termine “disoccupato” è offensivo, è aggressivo e dovrebbe essere bandito. Molti combattono solo per lo stipendio, per il risultato finale, ma non hanno in mente la qualità della propria prestazione, non sono attenti al contenuto della propria prestazione, sono attenti solo all’incasso. Si tratta di motivazioni dettate dall’idea di appropriarsi della droga di Stato, cioè la moneta, senza la quale peraltro non fai nulla nel nostro mondo».

Economia, poesia e Intelligenza artificiale. Oggi in che rapporto coesistono?
«È un equilibrio difficile. Quando si invoca un modo più poetico, si invoca semplicemente un mondo meno squallido, cioè meno appiattito sulla volgarità del profitto e sulla unicità dell’obiettivo del profitto. Il profitto è sacro, ma, se diventa sinonimo di progresso, è drammatico, è una variabile inquietante. Quindi, invocare un’economia più poetica significa invocare un’economia meno squallida, meno ricca di contrasti, meno ricca di episodi di disagio e di povertà totalmente evitabile in un mondo come il nostro, tecnologicamente molto evoluto. Come combinare queste cose? Come, cioè, pervenire a un’economia meno ricca di oggetti, meno ricca di cianfrusaglie? Come conciliare tutto ciò con il progresso? L’economia è infatti piena di oggetti, sospinti da un marketing ossessivo che stordisce. È progresso vero? Questa è la domanda».

E allora?
«Il progresso degli uomini, il progresso tecnologico, non è una scelta, ma è un destino. Che cosa avrebbero fatto gli uomini, sulla faccia della Terra, se non si fossero messi a pensare a qualcosa di utile? Attenzione, non tutti gli oggetti vanno demonizzati, ci sono tanti servizi e tante prestazioni che ci alleviano da fatiche evitabili. Quindi, esistono oggetti che possiamo salutare come benvenuti al mondo. Per governare la convinzione del progresso dettato da una sorta di ineluttabilità, ci vuole qualche idea forte. Un prodotto interno lordo fatto da una marea di oggetti rischia solo di stordire la testa e rischia di trasformare l’essere umano in vittima».

Dunque, che cosa serve?
«Ci vuole uno sviluppo spirituale adeguato. Io, per esempio, ho un atteggiamento critico verso la rivoluzione di Internet, che ci ha dato molto ma ci toglie tanto. Attenzione, non c’è passatismo in una posizione del genere. Se penso all’Intelligenza artificiale, mi chiedo che cosa possa fare domani, fra due o tre miliardi di anni, che sono due o tre secondi in rapporto all’eternità. L’Intelligenza artificiale sarebbe realmente utile, se ci aiutasse ad andare altrove. Infatti, della Terra possiamo solo prolungare l’agonia, ma sappiamo che va a morire. Il Sole morirà, quando diventerà una stella nana con un diametro gigantesco: collasserà all’interno e la Terra brucerà come una foglia secca. Allora dovremmo immaginare un’umanità che, anche grazie alla tecnica, possa aspirare all’immortalità, cioè a superare la morte del Sole. Io la vedo così. Domani anche Napoleone, Cesare, Goethe, Rembrandt o Petrarca non verranno più ricordati. Voglio dire che non dobbiamo puntare il nostro sguardo sull’immortalità delle figure eminenti, perché emergeranno nuovi miti e nuove forme di intelligenza. Stiamo giocando con tutti gli strumenti della tecnologia attuale, ora con i social. Ma ci limitiamo a giocare, a trastullarci».

Dunque, secondo lei il progresso tecnologico potrebbe anche essere salvifico?
«Sì, e la tecnica è l’unico modo per uscire dalla morte certa, dalla scomparsa dell’umanità. La vita sulla Terra è destinata a finire, a meno che non si rinnovi la quantità di materia del Sole, che ne brucia milioni di tonnellate al minuto. La tecnologia vera, il progresso vero è andare avanti, è sfidare Dio, chiunque o qualunque cosa sia. Un’Intelligenza artificiale che si sviluppa a ritmi importanti rischia di fagocitarci. Siamo storditi, viviamo in una situazione squallida, a fronte di un pensiero collettivo modesto. Ci vogliono miliardi di pensanti, non basta qualche miliardario che lancia un razzo nel cielo».

Ogni riferimento è puramente casuale, diciamo.
«Sì, esatto. Sono delle boutade, ci vogliono progetti, ci vuole una sensibilità complessiva di cui oggi non siamo dotati. Ora viviamo in un’economia che confonde, che ha scenari di squallore e non alimenta la nostra intelligenza né la nostra sensibilità. Sono diventato molto pessimista al riguardo, a meno che non succeda qualcosa di nuovo. Un rapporto diverso con la moneta ci farebbe guardare le cose in modo differente, posto che il rapporto attuale è troppo ossessivo e occupa il 90 per cento del tempo, nel cervello di ciascuno».

In queste sue elaborazioni filosofiche, quanto l’hanno seguita i suoi studenti dell’Unical? C’è qualcuno che l’ha seguita in particolare? Che reazioni ha registrato?
«È una domanda cui non so rispondere. Non so quanti mi abbiano seguito o quanti abbiano capito. Siamo tutti un po’ vanitosi. Io cerco, con l’età, di esserlo il meno possibile, anche perché la vanità distoglie dai veri obiettivi e aumenta la probabilità di inciampare o di fare passi falsi. Però ho potuto constatare che nei miei studenti ho lasciato un ricordo positivo, anche a distanza di anni. Ciò mi aiuta ad andare avanti, mi piace. Tuttavia, non so dirle fino a che punto qualcuno possa essere rimasto influenzato concretamente da questo sistema di idee».

Lei è venuto in Calabria e poi c’è rimasto.
«Ho 66 anni e sono in Calabria dal ’93-’94. Ero arrivato venendo come associato da Siena. Quando ho vinto l’ordinariato, pensavo di restare in Calabria per sei mesi e poi di tornarmene alla Bocconi o a Siena. Poi la Calabria mi ha cambiato la vita, mia moglie ora insegna alla Bocconi e dunque c’è stato uno switch perfetto».

Che cosa l’ha attratta della Calabria o di Cosenza? Che cosa l’ha fatta restare?
«Guardi, intanto mi sono sentito accolto bene e questo ha favorito la mia permanenza. Dopo mi sono innamorato di una mia studentessa, che poi è diventata mia moglie. Ancora, c’è stato un periodo di impegno anche con la città di Cosenza, il che mi ha aiutato a rimanere o comunque a dare un senso ulteriore alla mia presenza in Calabria. Ho lavorato con Giacomo Mancini senior e mi sono trovato bene dal punto di vista ambientale. Il Sud a me piace: si sta in mezzo al Mediterraneo, dove si ha la sensazione che ci sia l’origine di tutto. Per carità, sto bene pensando anche di poter tornare a Milano. Ma della Calabria mi ha affascinato la sua bellezza naturale, la varietà del suo paesaggio, il calore umano della sua gente».

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