LAMEZIA TERME «Il ricordo è costante, si rinnova ogni giorno, ma questa data, questo anniversario, è come un compleanno maledetto, un anniversario maledetto». Un filo di commozione, la mente che va e torna indietro nel tempo e il cuore che si spezza, ancora una volta. Perché 27 anni non cancellano una ferita impossibile da rimarginare. Era il 16 dicembre 1996 quando a Lamezia Terme si persero le tracce di Gennaro Ventura, fotografo, carabiniere in congedo, di soli 28 anni. A ricordarlo è il fratello, Raffaele, seppure a distanza di oltre mille chilometri da quella città che ha segnato per sempre il loro destino.
Una delle storie più drammatiche e atroci di una città che pare lontana anni luce da quella attuale. Una Lamezia, quella degli anni ’90 in particolare, segnata da terribili ed efferati omicidi, figli di una mano ‘ndranghetista violenta e spregiudicata, neanche sfiorata dalle maxioperazioni contro i clan più importanti del territorio lametino. È in questo quadro fatto di sangue e giochi di potere, di boss in ascesa e vecchi capi che si è consumato l’omicidio di Gennaro Ventura, storia avvolta nel mistero per 12 anni e rimasta irrisolta per quasi venti. Il 25 aprile del 2008, infatti, casualmente in un casolare abbandonato alla periferia lametina in località Carrà-Volpe furono trovati i suoi resti, insieme alla sua attrezzatura da fotografo e alla fede nuziale, da un privato che voleva acquistare l’immobile.
Il “cold case” sarà risolto solo qualche anno più tardi. Bisognerà attendere il 2015 e il pentimento di Gennaro Pulice. E sarà lui a raccontare tutto, nei minimi particolari, facendo nomi e cognomi. Il primo, il suo, esecutore materiale del terribile omicidio. L’altro è pesantissimo, quello cioè di Domenico “Mimmo” Cannizzaro, un nome che conta, il capo della cosca di cui proprio Pulice all’epoca era il braccio armato. Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia diventano il nodo cruciale attorno al quale gli investigatori della Squadra Mobile di Catanzaro e del commissariato di Lamezia Terme riescono a ricostruire la vicenda. È proprio Pulice a raccontare al sostituto procuratore della Dda, Elio Romano, il movente dell’omicidio di Gennaro Ventura. «Il Ventura aveva arrestato una persona dei Cannizzaro quando era carabiniere».
Una colpa, secondo il boss lametino, da espiare con il sangue. Ventura, quando lavorava a Tivoli, si era imbattuto in Raffaele Rao, cugino del boss. Sarà il carabiniere, infatti, a indagare su Rao fino al suo arresto per una rapina durante la quale era stato sottratto un ingente quantitativo di sostanza stupefacente dagli uffici del perito chimico del tribunale. Dopo una serie di indagini, in casa di Rao venne trovata la droga sottratta ai laboratori. Nel corso del processo Ventura e il suo collega testimoniarono inchiodandolo per rapina e aggressione. Secondo il racconto di Pulice, i Cannizzaro «non se la tengono, come non se la sono tenuta per il fatto di Ventura che era un ex carabiniere».
Il resto è storia. E in questo caso è un dramma terribile. Una volta in congedo, infatti, Ventura torna a Lamezia per intraprendere l’attività di fotografo insieme al padre e al fratello, Raffaele Ventura. Una condanna a morte perché i Cannizzaro effettivamente non avevano dimenticato, e fanno scattare la trappola mortale per il giovane. È il 16 dicembre quando Gennaro Pulice fissa un appuntamento col fotografo. Una volta incontrato, lo porta fuori città e lo uccide a freddo: due colpi di pistola calibro 9×19, di cui uno alla testa. Pulice, poi, nasconde il corpo nel palmeto del casale abbandonato, dove verrà ritrovato solo 12 anni dopo. L’iter giudiziario, nel frattempo, è stato molto complesso, nonostante gli inquirenti fossero riusciti a ricostruire tutti gli elementi chiave, dall’appuntamento con Pulice alla vicenda Rao. La svolta solo con la confessione del collaboratore di giustizia che cancella anni di illazioni e mezze verità. Gennaro Pulice è stato poi condannato a 7 anni e 8 mesi. Trent’anni, invece, per Mimmo Cannizzaro, come stabilito dalla Cassazione.
Oggi, a distanza di 27 anni, tutto è rimasto immutato per il fratello Raffaele. «I ricordi sono costanti, giornalieri e loro, questi personaggi malavitosi, uccidono di proposito prime delle feste per fartele ricordare ulteriormente e con più dolore». «Grazie a Dio il killer ha finalmente fatto luce sugli eventi, sulle motivazioni, anche perché si redento, ora è un collaboratore di giustizia. Al contrario di tutte le illazioni del passato».
Una storia drammatica con un finale diverso rispetto a tante altre, come ad esempio quella dei due netturbini Tramonte e Cristiano, uccisi nel quartiere Miraglia di Sambiase, a Lamezia Terme, il 24 maggio del 1991 e per il quale non c’è anche nessuna verità giudiziaria. «Sono vicino alle famiglie dei due netturbini, anche perché le cronache degli ultimi anni non hanno dato una verità. Sono vicino loro nel vero senso della parola, capisco il loro stato anche se in fondo non si capirà mai perché la morte violenta, chiunque esso sia, non è una cosa bella». «Scrissi già una lettera alla comunità di Lamezia in occasione dell’intitolazione della piazza a mio fratello Gennaro. Sono però grato a una parte della comunità, ma quell’altra parte che negli anni ha fatto illazioni fuori luogo sulla scomparsa no, ma la fortuna è che la verità sia uscita». (g.curcio@corrierecal.it)
x
x