Ha fondato e diretto un teatro in un aeroporto («Le mie radici sono ben salde in Calabria ma piantate anche nelle nuvole», dice), è stato nell’orbita di un vero e proprio monumento del teatro come l’Odin, ha recitato per Ridley Scott con Kevin Spacey e in questi giorni lo vediamo sul grande schermo nel film di Michael Mann dedicato a Enzo Ferrari, con Penelope Cruz e Adam Driver. Giuseppe L. Bonifati negli ultimi quindici anni ha scritto e diretto oltre 30 lavori, rappresentati in oltre 20 nazioni.
CHI È Giuseppe L. Bonifati
Classe 1985. È attore, drammaturgo, poeta e regista. Artista poliedrico ed instancabile viaggiatore. Ha frequentato la Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi. È stato artista e regista in residenza all‘Odin Teatret (Holstebro, Danimarca). Tra i diversi riconoscimenti in ambito artistico ha ricevuto il Microfono di Cristallo “Umberto Benedetto” dalla Rai, il Premio “Alessandro Fersen” per la Drammaturgia ed è stato scelto tra i Giovani Talenti Nazionali dal ministero della Gioventù. Sin dagli esordi è il direttore artistico di DOO performing arts group. Ha fondato poi assieme a Linda Sugataghy “Det Flyvende Teater” / Il Teatro Volante, il primo teatro al mondo con base all‘aeroporto Internazionale di Billund (Danimarca). Per il cinema, ha lavorato con Ridley Scott in “All the money in the world”, accanto a Kevin Spacey, Christopher Plummer, Mark Wahlberg, Michelle Williams, Timothy Hutton. Ha recitato nella serie tv della Bbc “Us”, con Tom Hollander e Sofie Gråbøl e ha preso parte al nuovo film di Michael Mann “Ferrari”, con Adam Driver e Penelope Cruz, in uscita il 14 dicembre nelle sale italiane.
Quando e perché ha lasciato la Calabria?
«Ho lasciato Castrovillari e la Calabria quando avevo 18 anni per approfondire i miei studi di recitazione in Italia e all’estero. Ero già stato introdotto in giovanissima età prima alla danza da Ranieri Aloe e poi al teatro da Giuseppe Maradei, un grande capocomico il cui ricordo è sempre vivo. Non ho mai preso in considerazione di rimanere in Calabria, avevo bisogno di viaggiare e vedere il mondo. Mancano all’appello ancora numerosi paesi, ad esempio siamo da poco ritornati da una felice tournée in Islanda, con il rischio di un’eruzione vulcanica in corso. È una vita incandescente la mia, ho le ali ai piedi e mille progetti ad ogni ritorno. Le mie radici sono salde anche se lontane dalla propria terra, ben piantate nelle nuvole, così come sulla terraferma…».
Rimpiange o le manca qualcosa?
«Vorrei portare con me la stanza dei ricordi, nella sua interezza. Il mio scrittoio, tutti i libri, la musica, i film, gli importanti tasselli della mia adolescenza. Anche se da allora, negli ultimi vent’anni, ho attraversato come un gatto più di sette vite alla ricerca di un’identità artistica. Un’attrice della mia compagnia mi disse sarei dovuto rimanere in Italia dopo un felice inizio della mia carriera, ma ero attratto dal Costa Rica, poi non so come, son finito in Danimarca. O meglio è stato per un altro grande maestro Eugenio Barba, ma non so perché ci son rimasto così a lungo e ho portato qui mia moglie, anche se viviamo diversi mesi l’anno anche in Ungheria. Col passare del tempo sono diventato anch’io nordico, lo dico per il lato umano che voglio rimarcare: sono preciso, serio, puntualissimo, forse per bilanciare il lato artistico e ribelle».
Cosa salva della Calabria?
«Salvo molto della Calabria, dopo aver fatto esperienza che tutto il mondo è paese. Abbiamo vissuto e lavorato per numerosi anni nel Nord della Danimarca dove l’arte e la cultura erano un faro della politica culturale. Praticamente siamo cresciuti nella convinzione che quella fosse l’intera Danimarca. Ci siamo trasferiti poi al Sud e dopo aver visto assumere nell’impiego pubblico figli di, responsabili culturali che finanziano le proprie associazioni ed esser stati testimoni della chiusura di un importante festival regionale, sono molto più disincantato rispetto ai primi anni. Salvo sicuramente della Calabria l’affabilità e l’accoglienza, nonché la perseveranza dei calabresi nel raggiungere gli obiettivi prefissati. E poi il profondo senso di rispetto per la morte, come un valore sacro e ancestrale della collettività, con echi della Magna Grecia».
Cosa non le piace del posto dove vive adesso?
«La poca empatia verso l’altro, anche e soprattutto in campo medico. Con un italiano puoi stringere un’amicizia duratura nell’arco di una giornata, e loro si farebbero in quattro per te. Con un danese servono dieci anni. E forse neanche questi sono abbastanza. Stranieri per favore non lasciateci soli con i danesi! campeggiava in un poster provocatorio a Copenhagen diversi anni fa, uno slogan sempre attuale. Più che il clima, cui ormai sono abituato, è la mancanza di empatia che potrebbe farmi emigrare di nuovo altrove. Un giorno forse, ma non adesso. Dopo aver esser stati a Los Angeles, spesso io e mia moglie ci illudiamo con il sogno americano prima di addormentarci…».
Com’è strutturata la comunità dei calabresi nel luogo in cui vive?
«Guardi, non le so dire, pensavo di essere l’unico calabrese in Danimarca! Sa cos’è? Bisogna prendere i danesi per la gola, qui non c’è una vera cultura gastronomica, il più famoso ristorante al mondo dicono sia il Noma di Copenhagen, ma è prossimo alla chiusura. Tutti amano l’Italia o la Spagna e appena possono fuggono, risultato: i danesi sono spesso in vacanza lì. La Danimarca è una monarchia fondata sul relax, il titolo di una nostra performance diversi anni fa. Immagini, io ero il candidato a sindaco del neonato Partito per l’Arte, 535 giorni di campagna elettorale assieme a Linda Sugataghy, first Lady, per promuovere “la bellezza prima di tutto”. Altri tempi».
Qual è secondo lei la forza dei calabresi fuori dall’Italia?
«La generosità, senza doppi fini. Non chiediamo mai nulla in cambio, e il solo dare a volte ci fa stare bene, molto più che il ricevere. Sono grandi esempi tramandati dai nostri genitori».
Ci sono, al contrario, degli stereotipi che ci inchiodano a luoghi comuni non più attuali o comunque folkloristici e frutto del pregiudizio?
«Gli stereotipi penso siano più legati ad altre regioni d’Italia. Spesso devo mostrare sulla mappa dove si trova la Calabria, all’estero è ancora una terra inesplorata e una meta non gettonata. Bisognerebbe farla conoscere di più attraverso l’arte, la cultura, il cinema. Allo stesso tempo quello che affascina di questa terra è il suo essere da sempre cosi rude e selvaggia».
Tornerà in Calabria?
«Se mi dessero in mano le chiavi di un teatro in un aeroporto o viceversa le chiavi di un aeroporto con un teatro, forse non escluderei il ritorno in Italia. Ad ogni modo stiamo esportando il format del Teatro Volante ed abbiamo iniziato con i paesi nordici, intessendo anche una conversazione con diverse esperienze in Europa per contrastare la paura del volo ed aiutare a ridurre lo stress da viaggio attraverso l’opera e il teatro. Sono poi alle prese con la sceneggiatura di un lungometraggio che potrebbe essere il mio film d’esordio da regista, ambientato tra la Danimarca e la Calabria. La vendetta è un piatto che va servito freddo, un film vagamente ispirato alla tragedia di Amleto, un revenge movie rivisto in chiave contemporanea e attraverso i luoghi dell’immaginario che sono stati da sfondo principale nel mio percorso artistico degli ultimi vent’anni».
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