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la rete criminale

Il «ruolo baricentrico» del porto di Gioia Tauro: nel traffico di droga «porta di ingresso in Europa»

Un ruolo di primissimo piano, un modus operandi ben preciso, contatti e ramificazioni che vanno dall’Europa al Sud America. La ricostruzione nel rapporto di Libera

Pubblicato il: 18/12/2023 – 7:00
di Mariateresa Ripolo
Il «ruolo baricentrico» del porto di Gioia Tauro: nel traffico di droga «porta di ingresso in Europa»

REGGIO CALABRIA Un «ruolo baricentrico» in quanto «porta di ingresso in Europa dello stupefacente importato». Un ruolo di primissimo piano, un modus operandi ben preciso, contatti e ramificazioni che vanno dall’Europa al Sud America: la centralità del porto di Gioia Tauro nei traffici di sostanza stupefacente, in particolare nel business della cocaina da parte della ‘ndrangheta è raccontata in modo dettagliato nel rapporto di Libera “Diario di Bordo. Storie, dati e meccanismi delle proiezioni criminali nei porti italiani” in cui sono stati elaborati i dati provenienti dalla rassegna stampa Assoporti, dalle relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia, della Dia, della Dnaa, dell’Agenzia delle Dogane e della Guardia di Finanza. Nel rapporto, lo scalo portuale calabrese viene definito «baricentrico» in un sistema che va a formare una rete più ampia: «Ciò che risulta importante sottolineare, però, è il particolare ruolo di luogo di approvvigionamento di merci illecite non solo per le organizzazioni criminali radicate sul territorio calabrese e in particolare nella Piana, ma anche per altri gruppi italiani (soprattutto nel napoletano, alcuni gruppi attivi nel Parco Verde di Caivano, nel rione Traiano e nell’area vesuviana) e stranieri. Quindi, una volta fuori dall’area portuale, i committenti erano molti e variegati. In questo senso il porto di Gioia Tauro – ma più in generale i porti italiani – assumono un ruolo rilevante non solo per la loro collocazione geografica e per le economie (anche illecite) di quel territorio, ma sono importanti come nodo di una più ampia catena logistica, che nel caso specifico riguarda anche la logistica criminale. Assumono il ruolo di base logistica per una rete più ampia di economie illegali».

Struttura, modalità e contatti per portare la cocaina dal Sud America a Gioia Tauro

È attraverso il modus operandi che gli investigatori hanno ricostruito con l’operazione “Tre Croci” che nel documento di Libera vengono mostrati alcuni elementi relativi alla struttura dell’organizzazione criminale, alle modalità di comunicazione e ai meccanismi di interazione tra i vari attori in campo. L’inchiesta, condotta dal Nucleo Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, ha portato all’arresto di 36 persone, accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Diverse le province coinvolte: Vibo Valentia, Bari, Napoli, Roma, Terni, Vicenza, Milano e Novara.
L’organizzazione criminale, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, «era formata da un’alleanza composta da un gruppo napoletano (Imperiale e Carbone) e da un gruppo riconducibile alla ‘ndrangheta (Bruzzaniti), impegnati nel reperimento, acquisizione, importazione e trasporto in Italia di cocaina proveniente dal Sud America attraverso il porto di Gioia Tauro. Nel gruppo napoletano spiccava il cd. “boss di Van Gogh” originario di Castellammare di Stabia (NA), già catturato a Dubai nell’agosto 2021 (DIA 2022b), nonché un elemento di spicco del clan Amato-Pagano. Ed è proprio il gruppo criminale campano ad essere stato coinvolto – sempre nel 2022 – in un’altra inchiesta relativa al traffico internazionale di cocaina (più di una tonnellata movimentata), riciclaggio e reimpiego dei proventi».
L’indagine “Tre Croci” ha fatto emergere «l’attività di una rete criminale italiana in grado di relazionarsi direttamente con influenti narcotrafficanti colombiani, e particolarmente organizzata anche per quanto riguarda la gestione delle comunicazioni. Infatti, queste avvenivano spesso in persona e all’aperto, oppure attraverso l’utilizzo di radio ricetrasmittenti. Inoltre, per ridurre il più possibile il rischio di essere intercettati, i componenti del gruppo erano soliti comunicare attraverso l’utilizzo di “criptofonini” collegati a piattaforme a circuito chiuso, di difficile captazione».

La rete all’interno del porto

La rete individuata è alquanto articolata. La cocaina acquistata in Sud America, poi, veniva fatta arrivare in Italia attraverso navi container destinate al porto di Gioia Tauro. Lì – viene sottolineato nel report – l’organizzazione criminale aveva nelle proprie disponibilità una struttura operativa composta da squadre di operatori portuali in grado di supportare costantemente il gruppo nel reperimento e nel recupero della cocaina dalle navi in transito fino all’esterno dell’area portuale. Nell’inchiesta “Tre Croci” sono 14 i portuali corrotti coinvolti, accusati di aver organizzato una gestione fraudolenta dei containers movimentati in porto, in modo tale da riuscire ad eludere i controlli doganali attraverso l’apposizione di sigilli contraffatti, che, invece, avrebbero dovuto garantire l’integrità del carico. «Il meccanismo prevedeva che gli intermediari comunicassero ai lavoratori portuali il nominativo della nave e il codice di riferimento del container in cui era occultata la cocaina. Una volta arrivato in banchina, il contenitore veniva sbarcato e collocato in una zona del porto ritenuta sicura dai portuali, i quali provvedevano all’apertura e al recupero dello stupefacente, che veniva successivamente inserito all’interno di un secondo container, che veniva ritirato da una ditta di trasporti e portato in un magazzino nelle disponibilità dei responsabili del traffico».

La ricostruzione

E la ricostruzione offerta dagli inquirenti rende evidente la particolare complessità dell’organizzazione: «Nello specifico, individuata l’area di sbarco idonea allo scopo, il contenitore “contaminato” veniva posizionato di fronte al contenitore “uscita”, lasciando trai due la sola distanza necessaria all’apertura delle porte per lo spostamento della merce illecita. Al di sopra dei due container, quindi, ne veniva adagiato un terzo, denominato appunto “ponte”, con lo scopo di celare, anche dall’alto, i movimenti nell’area sottostante. Una volta allestita l’area, al fine di non destare sospetti, i portuali infedeli venivano trasportati sul luogo delle operazioni, nascosti all’interno di un quarto contenitore, che veniva adagiato nella medesima fila ove era stata allestita la struttura. Infine, per evitare che soggetti estranei ai fatti intralciassero le operazioni illecite, due straddle carrier (veicoli speciali adoperati per la movimentazione dei container), condotti dagli indagati, stazionavano ai lati della fila di contenitori ove era stato costruito il ponte, per impedirne l’accesso e monitorare, dall’alto, l’eventuale arrivo delle Forze dell’Ordine». Particolarmente rilevante – viene sottolineato – «il ruolo di un doganiere, in particolare un funzionario operativo presso il servizio antifrode, che, secondo quanto emerso, «avrebbe truccato gli esiti dei rilevamenti degli scanner entro i quali la merce in transito dal porto passava. Grazie al proprio ruolo e alla propria funzione, era in grado di intervenire per oscurare le anomalie relative al carico, ottenendo come compenso circa il 3% del valore del carico illecito (che nell’occasione ammontava a 300 kg di cocaina). Un meccanismo corruttivo che consentiva l’impunità al gruppo. La variabile tra il 7% e il 20% – Secondo l’accusa, i portuali erano al servizio di diverse cosche: Piromalli, Crea, Alvaro, Gallico, Ladini e Pedullà. Per il servizio, queste pagavano una cifra che variava tra il 7% e il 20% del valore del carico e che risulterebbe ammontare a circa 7 milioni di euro l’incasso dei portuali. Nel corso dell’inchiesta sono state sequestrate 4 tonnellate di cocaina, è stata eseguita una misura preventiva per equivalente (pari a circa 7 milioni di euro) nonché dell’intero patrimonio aziendale di due imprese attive nel settore dei trasporti».

Il metodo di occultamento rip-off

E ad essere utilizzato maggiormente, secondo quanto emerso nelle indagini, è il metodo di occultamento cosiddetto rip-off , che consiste nel prelievo, da parte di compiacenti operatori, di borsoni o scatole contenenti panetti di cocaina, occultati all’interno di container. «Si tratta di una modalità che presuppone la disponibilità da parte di un gruppo di persone all’interno del porto, le quali, in virtù del proprio ruolo, delle proprie competenze e delle proprie abilità, sono in grado di recuperare dai contenitori la droga che, solitamente, è occultata o insieme alla merce o in appositi borsoni posti a ridosso della porta. Dall’analisi – si legge nel report – emerge come la pratica abbia accomunato diversi porti italiani sia nel Nord che nel Sud, dando inizio anche a processi di professionalizzazione in ciascun porto: si sono ciclicamente create delle vere e proprie squadre di recupero nei principali porti di destinazione della cocaina, quali Genova, Gioia Tauro, Livorno, Vado Ligure. Reti di illegalità, più o meno formalizzate, rinsaldate dalla comune partecipazione a reiterati scambi corruttivi. Questa modalità di recupero risulta essere particolarmente interessante perché permette di analizzare funzionamenti e malfunzionamenti del porto». (m.ripolo@corrierecal.it)

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