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la riflessione

La collina del vento: Calabria neocoloniale

di Francesco Bevilacqua*

Pubblicato il: 18/12/2023 – 9:08
La collina del vento: Calabria neocoloniale

Che la Calabria fosse una periferia dell’impero si sapeva da tempo. Che idealmente, si trovasse più a sud di qualunque Sud d’Europa lo si era compreso fin troppo bene. Che noi calabresi fossimo sotto tutela (e ricatto), come dei minorenni deviati, era ormai dominio comune. Ma solo in questi giorni ci è chiaro il tentativo di stringere un cappio al collo della Calabria. Mentre pure assistiamo a tanti casi di autorigenerazione dal basso (tutti puntualmente ignorati dagli economisti e media), eccoci, invece, improvvisamente travolti. Una valanga mai vista di progetti succhia danaro calati dall’alto sta per annientare l’unica vera attività produttiva (diretta o indiretta) che ci rimane: il paesaggio.
Ma cos’è il paesaggio? È tutto ciò che di naturale e di culturale si è sedimentato su un determinato territorio, in un’interazione quotidiana durata secoli; è il legame profondo che, nella storia, si è prodotto tra i luoghi e i loro abitanti; è ciò che rende unico, eminente, attraente un territorio ogni volta lo osserviamo, per qualunque ragione, anche la più prosaica. I più credono che il paesaggio sia solo natura guardata con ammirazione da un punto panoramico. No, il paesaggio è ciò che gli uomini hanno “creato” nella natura. In un triplice senso: da un lato è plasmato dall’attività umana; dall’altro è inventato dall’uomo attraverso la sua capacità percettiva ed i suoi giudizi di valore; dall’altro ancora è ciò in cui l’uomo abitante si specchia e si riconosce, ciò in cui egli riscopre la propria identità culturale, individuale, comunitaria.


Quando dico che il paesaggio è l’unica vera attività produttiva della Calabria, intendo esattamente questo: il paesaggio è la nostra risorsa, la regola non scritta che dovrebbe ispirare sempre le azioni di amministratori, operatori economici, semplici cittadini. Nulla dovrebbe essere fatto al paesaggio della Calabria che non sia prima voluto e condiviso da chi vi abita. Perfino l’economia di un territorio dovrebbe fondarsi sul paesaggio, come mostrano le tante imprese “vocazionali” che negli ultimi decenni si sono autoprodotte in Calabria assumendo il paesaggio che le circonda come linfa, sangue, memoria, nesso fra identità e ideazione Al contrario, invece, di tutto quanto ci è stato imposto dall’alto, che è quasi sempre fallito, lasciando disseminate nel paesaggio solo macerie.
Apprendiamo basiti, in questi giorni (ma avevamo abbondantemente avvertito, anche scrivendone qui, che l’onda di piena sarebbe arrivata), che multinazionali, società fantasma ed amministrazioni pubbliche vorrebbero “abbellire” a loro modo – e solo per i loro tornaconti – i nostri paesaggi. Stando ai progetti al vaglio di comuni, Regione e Soprintendenza, non potremo mai più rivolgere lo sguardo verso le nostre montagne, le nostre valli, le nostre colline senza vedere pale eoliche alte fino ed oltre 200 metri. Perfino i nostri mari diverranno presto una cintura di grandi impianti off shore da centinaia e centinaia di pale. A Gioia Tauro spetterebbe il rigassificatore. Per non dire di quella che, alla fine, sarà la più grande bufala della storia del Sud: il ponte sullo Stretto. E già si avvertono le prime “generose” profferte di acquisto di territori e speranze con una nuova (rispetto a quelle fallite in passato) ondata di fabbriche che non hanno nulla a che fare con le vocazioni dei nostri paesaggi. Come quella proposta da Baker Hughes a Corigliano.
Tutto questo ha un solo fine: completare l’opera neo-coloniale in Calabria; saccheggiando risorse, distruggendo quel che resta della sua bellezza, rendendo i calabresi ancor più schiavi, ancor più ricattabili, cancellando definitivamente ogni cultura locale, riempendoci di servizi per le multinazionali e, nello stesso tempo, svuotandoci di servizi essenziali per la sopravvivenza delle nostre comunità.
A tutto questo i calabresi devono opporsi con forza, ribaltando l’atavico complesso per cui il paesaggio – come osservò acutamente il romanziere veneto Giuseppe Berto – non sarebbe altro che il ricordo della miseria contadina. Tutti, invece, dovremmo avere ben presente il monito che un altro grande narratore, questa volta calabrese, Carmine Abate, mise in bocca all’archeologo Paolo Orsi nel suo libro “La collina del vento” (Premio Campiello 2012). Nel libro, Orsi, in visita al Rossarco, la bellissima collina arrossata dalle fioriture di sulla in vista allo Ionio, che una multinazionale dell’eolico ha preso di mira, dice al ragazzo, la cui famiglia contadina difende il luogo, e che gli chiede di poter scavare anche lui per trovare la città sepolta che orsi cercava: “Questo non è un gioco, caro Michelangelo. E se non mi sbaglio tu hai già un compito impegnativo: sei il custode della collina, e il custode è più importante di uno scavatore, più importante di un archeologo come me: conserva la memoria di un luogo, protegge dalle grinfie dei furbi ciò che sta dentro e ciò sta fuori terra, ne difende la dignità”.
Ecco, come il Michelangelo de “La collina del vento” noi calabresi dobbiamo finalmente emanciparci dai nostri complessi, dobbiamo divenire custodi dei nostri paesaggi, dobbiamo imparare che i luoghi che ci ospitano non hanno prezzo ma dignità. E solo il rispetto dei nostri paesaggi potrà restituirci quella dignità che, per gli speculatori in agguato, Calabria e calabresi hanno perduto da tempo.

 *Avvocato e scrittore

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