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storie dimenticate

Il “vendicatore dell’Aspromonte” che negli anni ‘60 provò a sterminare un’intera famiglia

La furia omicida di Domenico Maisano colpì cinque persone. Tra queste, il 22 dicembre del 1962, anche le giovani sorelle Maria e Natalina Stillitano

Pubblicato il: 19/12/2023 – 6:59
di Francesco Veltri
Il “vendicatore dell’Aspromonte” che negli anni ‘60 provò a sterminare un’intera famiglia

È il 22 dicembre del 1962, mancano pochi giorni a Natale e Maria e Natalina Stillitano sono nella loro casa di Drosi, un piccolo centro della Piana di Gioia Tauro, insieme a una nipote quindicenne, Carmela. Come ogni sera stanno effettuando alcuni lavori di sartoria. Maria e Natalina sono giovani, giovanissime, appena 22 e 21 anni, e non possono minimamente immaginare cosa sta per accadere in quella casa. Qualcuno bussa alla porta, Maria si alza per aprire e in un attimo è l’inferno. Un uomo vestito di nero, fa partire una fucilata che uccide sul colpo la donna. Non contento, si addentra nell’abitazione e una volta giunto davanti al volto terrorizzato di Natalina, le chiede dove si trova Francesco, suo padre. La ragazza non sa cosa rispondere, non le escono le parole di bocca, sta vivendo un incubo. Non ha neanche il tempo di capirlo fino in fondo che quell’uomo prende la rivoltella che tiene legata alla cintola e le scarica addosso tutti i proiettili che contiene il caricatore. Tre di questi finiscono nelle gambe di Carmela. Natalina muore immediatamente, mentre Carmela resta ferita. Quell’uomo poi scappa, torna a rifugiarsi tra le montagne dell’Aspromonte, dove da tempo si nasconde.

Il ferimento del nipote prediletto da vendicare

L’uomo responsabile di quella barbara esecuzione è Domenico Maisano. È un contadino di 42 anni che appartiene all’omonima famiglia di ‘ndrangheta. Le cronache del tempo lo descrivono come una persona fredda, spietata, capace di compiere qualsiasi atto malvagio. Ma perché uccidere in quel modo due ragazze così giovani? Perché cercava Francesco Stillitano?
Da tempo Domenico Maisano ha deciso di iniziare una vera e propria faida nei confronti di tutti i familiari dell’uomo che ha ferito il nipote prediletto Martino Seva. Lo ha giurato, non risparmierà nessuno, donne e bambini compresi. Le ragioni di quella decisione insensata risalgono a due anni prima, esattamente al 17 maggio 1960 quando Martino, che poteva permettersi di studiare proprio grazie al sostegno economico dello zio Domenico, decide di difendere l’onore di Rosa, sua sorella, a cui a suo avviso Antonio Stillitano, sposato con sette figli, ha mancato di rispetto. Siamo negli anni ’60 e in alcune zone della Calabria certe vicende evidentemente si risolvono ancora così. E allora i due vanno a duello, Antonio Stillitano spara meglio e colpisce il giovanissimo avversario. Martino Seva non muore ma perde l’uso delle gambe. Sarà costretto a trasferirsi in Toscana e a ricoverarsi per diversi anni in una clinica di Firenze con la speranza di guarire. Non ci riuscirà. Da quel giorno, però, da quel drammatico 17 maggio, Domenico Maisano, lo zio di Martino, ha deciso di vendicare il nipote per cui immaginava un futuro radioso.

“L’uomo che uccide il 22”

La vendetta di Domenico Maisano inizia due anni dopo, sempre in maggio. Ma non raggiunge il suo scopo fino in fondo. In un agguato riesce soltanto a ferire Antonio Stillitano e un amico che in quel momento si trovava con lui. Ma la vera guerra di Maisano inizia veramente pochi mesi dopo, a pochi giorni dal Natale, con l’omicidio delle sorelle Stillitano. Quella sera il contadino di Drosi avrebbe voluto freddare anche Francesco, padre di Maria e Natalina e fratello di Antonio, ma in quel momento l’uomo non si trovava in casa. La sua furia omicida non si placa, proprio come aveva promesso. Ancora un 22 (giorno simbolico come il numero degli appartenenti alla famiglia Stillitano che ha deciso di sterminare), ancora a maggio stavolta del 1963, Maisano scende in paese dal suo nascondiglio e uccide a colpi di lupara Antonio Jamundo, nipote di Antonio Stillitano. Nell’agguato rimane ferito lo zio materno dell’uomo che odia, Diego Surace. Esattamente un mese dopo, il 22 giugno, è Francesco Stillitano, padre di Maria e Natalina, a cadere sotto la sua furia omicida insieme a un amico, Rocco Barresi.
I superstiti della famiglia Stillitano sanno di avere le ore contate, vivono nel panico, le loro case si trasformano in fortini presidiati notte e giorno da poliziotti e carabinieri. Molti di loro decidono di lasciare per sempre Drosi e si trasferiscono in Francia. Ma è l’intera comunità a non sentirsi più al sicuro. La Squadra mobile e i carabinieri iniziano le ricerche sul tutto il territorio aspromontano di quel sicario impazzito. Sulla sua testa pende una taglia di tre milioni di lire, che poi diventano cinque, troppo pochi secondo alcuni abitanti della zona. Nessuno parla, nessuno vuole esporsi. Nel successivo processo, però, la Corte d’Assise di Palmi condanna in contumacia Maisano a due ergastoli. Ma lui, il colpevole, non c’è, non si trova da nessuna parte e nonostante questo da quelle parti si vive nella paura. Ogni giorno i carabinieri scortano i bambini che vanno a scuola, temono che “l’uomo che uccide il 22” possa scagliarsi anche contro di loro. Nell’aprile del 1964 la “Domenica del Corriere” (popolare settimanale illustrato del Corriere della Sera) dedica la sua apertura al dramma che si sta vivendo nel Reggino. L’immagine di copertina, disegnata da Walter Molino, rappresenta i carabinieri che accompagnano i bambini a scuola per proteggerli da Maisano.

Il ritorno a casa di Martino Seva e la fine di Maisano

Nell’agosto del 1965, cinque anni dopo quel duello rinascimentale, Martino Seva torna a Drosi. Il miracolo, com’era prevedibile, non si è verificato, le sue gambe sono ancora immobili, lui è seduto su una sedia a rotelle. La preoccupazione della famiglia Stillitano, almeno dei pochi che non hanno lasciato la Calabria, torna a crescere, si teme che il ritorno a casa del nipote possa risvegliare la rabbia di Domenico Maisano. Non accadrà più niente, almeno fino ai primi giorni di ottobre del 1967 quando lo stesso Maisano viene trovato morto in contrada Cacigna di Drosi, a pochi metri da un fondo di proprietà del fratello Antonio. A far ritrovare il corpo del latitante martoriato dai colpi di fucile, sono due donne che hanno assistito all’agguato. Per quell’omicidio vengono fermati i contadini Luigi e Salvatore Mamone (54 e 30 anni). Quest’ultimo, cognato di uno degli Stillitano, è ferito a una spalla, probabilmente raggiunto da un colpo di fucile da Domenico Maisano, nel disperato tentativo di fuga prima che cadesse sotto i colpi dei suoi assassini. Accanto al suo cadavere i carabinieri hanno trovato del salame, del formaggio e tre chili di pane. Glieli aveva appena portati un parente, seguito, evidentemente, da Luigi e Salvatore Mamone. Nella piccola frazione di Rizziconi la voce si sparge in pochi minuti e sul posto, oltre ai militari, si presenta l’intero paese. Ora tutti possono vedere, tutti sono certi che quell’uomo che per anni ha seminato il panico, non c’è più.
Il 24 ottobre di quello stesso anno la “Domenica del Corriere” pubblica in prima pagina la notizia dell’incoronazione di Farah Pahlavi, l’ultima imperatrice iraniana. All’interno, altri titoli più o meno interessanti: “Il nostro inviato Alessandro Porro in Bolivia scrive: ho visto il corpo di Guevara ma la gente non crede che sia morto e canta. Se senti battere alla porta, apri: è Guevara”, “Inchiesta sul terrorismo neonazista in Alto Adige: la guerra delle valigie al tritolo”, “La storia della Rivoluzione Russa (4^ puntata): Lenin sul trono”, “Oronzo Pugliese ottavo re di Roma (di Enzo Tortora)”, fino all’articolo finale: “Ucciso Domenico Maisano, il vendicatore dell’Aspromonte che costrinse un intero paese a vivere in una specie di bunker”. (f.veltri@corrierecal.it)

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