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«La Calabria è la terra ideale per lo sviluppo di Comunità energetiche rinnovabili»

L’intervista all’ambasciatore per l’Italia del Patto europeo per il clima. D’Ippolito: «Trasformiamo la terra in un hub di energia pulita»

Pubblicato il: 22/12/2023 – 7:08
di Emiliano Morrone
«La Calabria è la terra ideale per lo sviluppo di Comunità energetiche rinnovabili»

LAMEZIA TERME Giuseppe d’Ippolito, originario di Lamezia Terme, è stato di recente nominato Ambasciatore per l’Italia del Patto europeo per il clima, che fa capo alla Commissione europea. Ora l’ex deputato vive a Roma e opera in tutta Italia come avvocato cassazionista specializzato in tutela ambientale e dei consumatori, sicurezza e diritto alla salute anche in rapporto all’inquinamento. L’ex parlamentare, che insieme scrive su diverse riviste scientifiche e divulgative, si occupa di sostenibilità, energie rinnovabili, transizione energetica, nuove tecnologie digitali e contrasto del cambiamento climatico. Peraltro, in qualità di esperto affronta questi temi sul sito Climateaid, che ha fondato di recente ed è diventato un punto di riferimento per gli ambientalisti. Con lui, oggi discutiamo del suo nuovo ruolo e di importanti questioni ambientali, anche con riferimento alla regione Calabria: dalle energie rinnovabili agli impegni internazionali, dagli impatti dell’Intelligenza artificiale alle automobili del futuro.

Giuseppe D'Ippolito
Giuseppe D’Ippolito

Ambasciatore per l’Italia del Patto europeo sul Clima. Come è arrivata questa nomina?

«Nella maniera più lineare e trasparente possibile. In primavera ho partecipato qui da Roma a una selezione pubblica proposta dalla Commissione europea. Ho poi affrontato un articolato processo di valutazione fondato su colloqui personali, esame del mio curriculum, dei miei scritti e delle mie attività sui cambiamenti climatici. Non ne ho più saputo nulla, dimenticandomi pure di questa partecipazione fino a quando, un paio di settimane fa, mi è giunta inaspettata la nomina, con tutta una serie di indicazioni e prescrizioni».

Che cosa è, il riconoscimento delle sue competenze e delle sue battaglie in materia di ambiente?

«Credo, ovviamente, che abbia contato tutto il mio pregresso professionale e parlamentare, ma in egual misura con le mie attività più recenti: dai libri, agli articoli, agli interventi pubblici, al mio impegno sul climate change».

L’Unione europea si è dimostrata più attenta al suo curriculum, rispetto all’Italia?

«Cosa vuole che le dica? Tutti sappiamo quanto, in Italia, sia difficile ottenere una valutazione personale esclusivamente basata sul merito, specie se si parla di lavorare in istituzioni pubbliche. Contano ancora i rapporti, le amicizie, i contatti, l’appartenenza. Al contrario, pensi che io non sapevo neanche chi fosse Kurt Vandenberghe, il direttore generale della Direzione per l’azione per il clima della Commissione europea, fintanto che non ho letto la sua firma sul mio certificato di nomina».

Ne prova rammarico?

«Sì, non tanto per me, che già penso di aver fatto tanto nella mia vita, quanto per i giovani che hanno tutte le ragioni per vedersi riconoscere le proprie aspirazioni. Io ne incontro quotidianamente tanti che hanno una tale ricchezza di preparazione e professionalità che meriterebbero maggiori spazi. Maggiori opportunità le offre il settore privato, che privilegia le competenze e le conoscenze. Anche lì, però, i meccanismi di selezione andrebbero migliorati. Mentre il settore del pubblico si priva coscientemente e ostinatamente di apporti importanti, che invece lo qualificherebbero nell’interesse generale. E ovviamente come conseguenza, leggo di tali castronerie e insulsaggini nell’operare delle istituzioni, salvo rari casi, che offendono l’intelligenza umana».

Quali sono, ora, i suoi compiti istituzionali?

«Il mandato che ho ricevuto è organizzato su tre grandi temi, da sviluppare con programmi d’azione in autonomia ma nel rispetto dei princìpi e valori comunitari: far conoscere il cambiamento climatico; sviluppare e implementare soluzioni; connettersi con altri attori interessati e massimizzare l’impatto di queste soluzioni».

Di che cosa si è occupato dopo la conclusione del suo mandato parlamentare, segnato dalla rottura con il Movimento 5 Stelle?

«Sono semplicemente ritornato alla mia attività professionale, però concentrandomi in particolare su temi e azioni finalizzate alla salvaguardia ambientale e alla tutela dei consumatori. Scrivo periodicamente su vari siti on line e circa un anno fa ne ho fondato uno tutto mio (www.climateaid.it), che ha raggiunto ottimi risultati in termini di visitatori. In breve, faccio l’avvocato, il consulente giuridico, il divulgatore e il formatore. In questo ultimo semestre dell’anno, sono stato molto impegnato a spiegare ed aiutare enti, aziende e società ad adempiere ai nuovi obblighi, con altrettante opportunità, previsti dalle norme comunitarie. Parlo delle informative, che diventeranno obbligatorie dal prossimo gennaio 2024, sulla Sostenibilità e sui fattori Esg (Environment-ambiente, Society-società e Governance-il governo dell’impresa, nda). Sono poi molto occupato, anche in sede contenziosa, per contrastare il fenomeno del greenwashing (diffusione di informazioni false o ingannevoli sulla sostenibilità ambientale, ndr), purtroppo praticato da molte aziende».

Ai cambiamenti climatici lei ha dedicato anche un libro di testimonianza. A che punto siamo, in Italia, riguardo alle norme e alle azioni di contrasto del fenomeno? Quanto è importante promuovere, soprattutto fra i più giovani, una cultura sulle grandi emergenze ambientali del pianeta?

«Purtroppo, vedo il perdurare, nelle posizioni dell’Italia, di ripetute contraddizioni. Ci si dichiara favorevoli alla decarbonizzazione globale ma poi si vuole che l’Italia diventi l’hub di combustibili fossili, a partire dal gas. Così come nessun governo degli ultimi anni è riuscito ad imporre uno stop (e neppure una riduzione parziale) ai sussidi all’utilizzo dei fossili, i cosiddetti Sad (Sussidi Ambientalmente Dannosi, nda), che ammontano a quasi 40 miliardi di euro l’anno. Si fa fronte comune, alla Cop28 di Dubai, con i 120 Paesi che si sono impegnati a triplicare le fonti rinnovabili, ma da noi le procedure per ottenere l’autorizzazione a realizzare impianti di rinnovabili è talmente farraginosa e complicata che l’arretrato di domande giacenti in attesa, è sempre in progressivo aumento. Per non dire della costante opposizione dell’Italia alle misure previste nell’ottica del Green Deal europeo».

È allora complicato parlare ai più giovani di emergenze ambientali?

«Sì. I più giovani riconoscono da soli e ogni giorno gli effetti del cambiamento del clima ma non trovano, da parte dei decisori politici, le risposte adeguate a questa situazione. Ciò è fonte di grande preoccupazione perché la generazione Zeta o i cosiddetti Millenials non hanno un vissuto storico che li colleghi ai comportamenti scriteriati e irresponsabili delle generazioni precedenti. Quindi sarebbe più facile ottenere da loro, naturalmente, atteggiamenti orientati al rispetto dell’ambiente e degli ecosistemi e una ovvia propensione ad una nuova cultura nei comportamenti individuali. Ma le contraddizioni che dicevo generano confusione e indecisione e spingono all’individualismo e all’egoismo, non alla consapevolezza e alla responsabilità. Questo potrebbe essere, a mio avviso, uno degli elementi che li allontana dalla politica».

E in Calabria?

«La Calabria corre sempre di più il rischio di essere la fiera delle occasioni perdute. Tre università, l’assenza di inquinamento industriale e un patrimonio naturalistico, ambientale e climatico di una tale ampiezza e rilevanza potrebbero essere meglio sfruttati per trasformare la nostra terra, per esempio, in un hub di energia pulita composta da eolico, solare, geotermico, energia mareomotrice e idroelettrica. Per inciso, quest’ultima per lunghi anni ha portato la Calabria a raggiungere primati assoluti nel Paese. Le università potrebbero essere il luogo per valorizzare queste potenzialità o per crearne altre, come, ad esempio, la sperimentazione di sostanze che in un futuro ormai prossimo potrebbero sostituire le “terre rare” o il litio, sempre più richiesti per la costruzione di accumulatori e di cui in Italia siamo sprovvisti. Mi risulta che alcuni dipartimenti di atenei calabresi già lo facciano ma senza i collegamenti necessari all’utilizzo sul campo delle loro ricerche».

Una bella sfida.

«Purtroppo, anche a causa di una visione miope di un certo ambientalismo dagli orizzonti limitati, tutto ciò è stato impedito o ostacolato. Ci si è trincerati dietro “la Calabria produce più energia di quanto ne consumi, perché ne dovrebbe produrre di più?”. L’affermazione è vera, se si considera che la Calabria produce circa 17 gigawatt e ne consuma circa cinque. Tuttavia, essa viene tragicamente superata dalla semplice osservazione che quasi il 65 per cento di tutta l’energia calabrese viene prodotta da fonti fossili e solo il 35 per cento proviene da fonti rinnovabili. Quali prospettive attendono le prossime generazioni di calabresi? Si corre il rischio di difendere ciò che, magari in questo secolo o nel successivo, sarà desertificato o sommerso dall’innalzamento dei mari o bruciato dalla siccità e dagli incendi, se continuiamo a non far nulla».

E quindi?

«Ovviamente io non ci sarò più, ma non voglio assumermi la responsabilità di non aver impedito che le generazioni future non possano più godere dell’infinita bellezza di un Ambiente salvaguardato, magari con qualche pannello fotovoltaico in più. D’altra parte, se c’è ancora qualcuno che vagheggia di uno sviluppo industriale, come avvenne negli anni ‘70 ignorando, ad esempio, le prospettive di un’agricoltura di qualità e ambientalmente sostenibile anche a sostegno di consumi alimentari consapevoli, perché meravigliarsi se qualcuno non vuole le pale eoliche in alto mare, non visibili e a 60 chilometri dalla costa? Il presidente Occhiuto ha dichiarato di aver posto la tutela dell’ambiente tra i temi centrali della sua agenda di governo e ho molto apprezzato la firma di protocolli e azioni con le forze dell’ordine e la magistratura per contrastare ogni forma di reato ambientale, come il traffico illecito di rifiuti. Così come per la lotta agli incendi, le politiche contro l’abusivismo edilizio e la difesa del mare dagli scarichi abusivi. Peccato che la sua forza politica sia una delle responsabili di quelle contraddizioni nazionali di cui ho già parlato».

Che cosa fare, dunque?

«Non dimentico che, quando ero ancora un parlamentare, fu lui ad invitarmi a promuovere un convegno regionale, che fu straordinariamente seguito dai rappresentanti comunali, sulle Comunità energetiche rinnovabili. Era appena entrata in vigore la legge che le prevedeva e che avevo contribuito a scrivere e la Calabria fu una delle prime regioni a promuoverle, anche con provvedimenti che implementavano la legge nazionale. Poi siamo rimasti per due anni in attesa dei decreti attuativi e tutto si è fermato. Ora che i decreti hanno passato il vaglio comunitario, spero che il processo riprenda. Io sono nuovamente disponibile a collaborare, anche nel mio nuovo ruolo. Quale regione meglio della Calabria, ricca di borghi storici e dove 304 comuni su 404 hanno una popolazione inferiore ai 5mila abitanti, quindi sono finanziabili con il Pnrr, può offrire il terreno ideale per lo sviluppo delle Comunità energetiche rinnovabili?».

Qual è il programma che si è dato come Ambasciatore per l’Italia del Patto europeo sul Clima?

«Conto di avviare a breve un ciclo di confronti con enti, istituzioni, aziende, organizzazioni, sindacati, associazioni eccetera per arrivare a un incontro con il Commissario europeo dell’Azione per il Clima, Wopke Hoekstra, già programmato a Bruxelles per il prossimo 5 marzo, con un progetto per la costituzione di una rete di attori, senza vincoli di appartenenza o di ruoli socio-politici, da coinvolgere fattivamente negli obiettivi del mio mandato: diffusione delle conoscenze, sviluppo e implementazione di soluzioni».

Transizione energetica, transizione green, sostenibilità nelle sue tre dimensioni essenziali. Siamo sulla buona strada, nel vecchio continente?

«La spinta che viene dalle istituzioni e dai consessi internazionali è veramente significativa in tal senso. Ricordo l’Agenda 2030 Onu e i suoi 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile che riguardano temi come la povertà, la fame, la salute, l’istruzione, la parità di genere, l’energia, il clima, la pace e la giustizia, da raggiungere entro il 2030. D’altra parte, il Green Deal è la strategia dell’Unione europea per trasformare l’Europa in una società equa e prospera, con un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva, che, a partire dal 2050, non genererà più emissioni nette di gas a effetto serra. L’obiettivo è rendere l’Europa il primo continente a impatto climatico zero e resiliente ai cambiamenti climatici, garantendo al contempo una transizione giusta ed equa per tutti i cittadini e le regioni».

Però?

«Gli accordi internazionali si scontrano con le politiche d’attuazione dei singoli Paesi. Giudico tiepidamente, ad esempio, i risultati raggiunti con l’accordo sottoscritto da 198 governi nella recente Cop28 di Dubai. Affermare che si raggiungerà la decarbonizzazione globale entro il 2050 senza fissare delle verifiche intermedie, ci espone al rischio di arrivare al 31 dicembre 2049 per scoprire che l’obiettivo non è stato raggiunto e che l’anidride carbonica è ulteriormente aumentata insieme alla temperatura globale, per non parlare degli eventi climatici estremi e delle loro conseguenze, che si saranno malauguratamente nel frattempo verificati. Di contro, la scienza indica la necessità di obiettivi intermedi. Il rapporto dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, nda) sulla mitigazione del cambiamento climatico, pubblicato il 4 aprile 2022, sostiene che, per contenere il riscaldamento globale entro 1,5 °C, le emissioni globali di gas serra devono diminuire del 43 per cento entro il 2030, rispetto ai valori del 2019, mentre gli attuali piani nazionali per il clima prevedono solo una riduzione del sette per cento. Condivido l’affermazione della nostra presidente del consiglio che la transizione non deve essere ideologica, semplicemente perché a guidarci deve essere la scienza e non l’ideologia, qualunque essa sia».

Da ultimo lei si è dedicato anche allo studio delle nuove tecnologie digitali. Non hanno un grosso impatto sull’ambiente?

«Le tecnologie digitali possono aiutare, e molto, l’ambiente ma segnalo una grave carenza infrastrutturale. Finché l’accesso alle tecnologie digitali – penso ad Internet, ad esempio – non diventa un diritto universale e sociale, come la scuola o gli ospedali, come ho sostenuto in una mia proposta di legge, e lo Stato non lo garantisce a tutti con infrastrutture adeguate, veloci, efficienti, stabili e aggiornate, sarà pura utopia parlare di digitalizzazione e progressi tecnologici. Come si compie l’alfabetizzazione digitale di un Paese in cui mancano connessioni che non siano private, costose e scarsamente performanti?».

A parte questo?

«Penso al recente sviluppo delle tecnologie connesse all’Intelligenza artificiale, che sta dimostrando di avere un ruolo cruciale nella difesa dell’ambiente. Dalla riduzione delle emissioni di gas serra alla protezione della biodiversità, passando per la prevenzione degli incendi e l’ottimizzazione dell’efficienza energetica, l’IA sta guidando una vera rivoluzione nella tutela del nostro pianeta. Ma siccome ogni medaglia ha il suo rovescio, di fronte agli indubitabili meriti dell’IA nel supporto alla salvaguardia dell’ambiente, essa stessa, però, si trova sul banco degli imputati per ciò che attiene alle sue emissioni e alla sua complessiva impronta ecologica. L’impatto ambientale dell’Intelligenza artificiale è un tema di crescente rilevanza».

Quanto inquina l’Intelligenza artificiale?

«Sappiamo ancora molto poco al riguardo. Gli studi che stimano le emissioni generate dai modelli sono ancora pochi, e ancor meno si concentrano su altri fattori che pesano sull’ambiente e sul clima. Secondo uno studio dell’Università del Massachusetts Amherst, negli Stati Uniti, lo sviluppo di una singola Intelligenza artificiale determina l’emissione di 284 tonnellate di anidride carbonica, cinque volte l’impatto medio ambientale di un’automobile durante l’intero ciclo di vita. La sola fase dell’apprendimento degli algoritmi di un sistema di IA consuma oltre 280 tonnellate di anidride carbonica. Tuttavia, l’impiego dell’IA nei settori chiave come acqua, agricoltura, trasporti ed energia potrebbe portare a una riduzione delle emissioni del quattro per cento entro il 2030, equivalente alle produzioni inquinanti combinate di Australia, Canada e Giappone. Rappresenta quindi un’opportunità senza precedenti per la salvaguardia dell’ambiente, ma ha anche un impatto significativo. È quindi necessario continuare a investigare e monitorare attentamente le sue conseguenze per sviluppare soluzioni sostenibili. Solo così avremo fondati motivi per fare pressioni sui governi, sulle organizzazioni e sulle imprese affinché sfruttino appieno il suo potenziale per creare un futuro sostenibile per tutti».

Il futuro sarà delle auto elettriche oppure delle auto a idrogeno?

«Domanda molto interessante, che però non può avere una risposta univoca. Le auto elettriche e le auto a idrogeno sono due tecnologie diverse, ma entrambe hanno il vantaggio di non emettere gas serra e di contribuire alla transizione energetica. Tuttavia, hanno anche dei limiti e delle sfide da affrontare. Le auto elettriche usano delle batterie ricaricabili per immagazzinare l’energia elettrica, che viene poi usata per alimentare i motori elettrici. Le auto a idrogeno, invece, usano delle celle a combustibile per produrre l’energia elettrica a partire dall’idrogeno e dall’ossigeno, rilasciando come unico scarto del vapore acqueo. Le auto elettriche hanno il vantaggio di essere più efficienti, di avere una maggiore autonomia e di poter usufruire di una rete di infrastrutture più sviluppata. Inoltre, offrono una maggiore varietà di modelli e di segmenti di mercato. Le auto a idrogeno hanno il vantaggio di offrire un rifornimento rapido e una maggiore autonomia, soprattutto per i veicoli pesanti e per i viaggi a lunga distanza. Le auto a idrogeno, però, devono affrontare il problema della bassa efficienza, del costo elevato e della complessità delle celle a combustibile, della sicurezza e della distribuzione dell’idrogeno. Inoltre, devono superare le resistenze e le diffidenze del pubblico e degli operatori».

Allora come la vede nel merito?

«Il futuro non apparterrà alle auto a motore endotermico alimentate a benzina o gasolio che, secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, sono responsabili di circa un quarto delle emissioni totali di CO2 in Europa, il 71,7 per cento delle quali viene prodotto proprio dal trasporto stradale. Probabilmente, l’immediato futuro dei trasporti sarà basato su una combinazione di diverse tecnologie ma, successivamente, il motore elettrico si diffonderà. Conosco le obiezioni: dipendenza per le batterie da tecnologie provenienti dalla Cina; possibile perdita di posti di lavoro legati al tradizionale automotive».

Può scendere nel dettaglio?

«Ho studiato a fondo entrambi gli aspetti e lo sviluppo dei sistemi produttivi nel prossimo decennio. I dati di Battery-News – un sito collegato con Science Daily, che pubblica notizie e ricerche scientifiche su vari argomenti, tra cui le batterie – stima che in Europa, al momento in cui le parlo, si produca con le batterie per auto una capacità di circa 1300 GWh l’anno. I dati raggruppano la capacità produttiva delle varie industrie di auto e dei singoli Paesi. Essi fotografano la produzione di batterie in Europa e vedono come protagonisti: Porsche, Volkswagen, Tesla, in Germania e Repubblica Ceca; Seat, in Spagna; Volvo, in Svezia; inoltre prossimamente dovrebbe essere ufficializzato anche l’accordo siglato da Stellantis per la produzione di batterie a Termoli, in Italia. Essi si aggiungono ai progetti di produzione, già in essere, in Polonia, Slovacchia, Ungheria, Italia (Sicilia), Spagna, Francia, Gran Bretagna, Norvegia, Svezia. Mi pare che sia tutt’altro che un monopolio cinese. In merito alla seconda obiezione: l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha realizzato uno studio secondo cui gli occupati delle imprese integralmente dedicate ai motori endotermici, quindi a rischio maggiore, sono complessivamente circa 14mila. Di questi, solo il 40 per cento lavora per aziende di grandi dimensioni. Mentre gli occupati coinvolti dalla transizione nel segmento dei powertrain elettrici sono già circa 22mila in 107 piccole e medie imprese con un fatturato di circa sette miliardi di euro. Proiettando gli scenari occupazionali al 2030, i nuovi posti di lavoro non saranno limitati alle sole realtà che già fanno parte dell’attuale ecosistema della mobilità elettrica».

Avranno un ruolo chiave le nuove attività al servizio di questa filiera?

«Certo. Sono in costante aumento, infatti, le iniziative manifatturiere collaterali che possono contribuire in modo particolarmente rilevante alla creazione di nuovi posti di lavoro. Approfondendo il ragionamento con le ipotesi di reattività assunte, l’impatto occupazionale complessivo al 2030 risulterà addirittura positivo, con un incremento del 6 per cento degli occupati totali della filiera. Numeri a cui si potrebbero peraltro sommare i circa 7mila nuovi posti di lavoro al 2030 stimati da BCG per il comparto infrastrutture ed energia al servizio della mobilità elettrica. Ovviamente tutto ciò solo se la politica imparerà a ragionare in proiezione almeno decennale o più a lungo, e non solo fino alle prossime elezioni, come capita oggi. Ma i cittadini sono più lungimiranti di coloro che eleggono, quando e se votano. Infatti, è proprio l’Anfia – Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica – a comunicare che le immatricolazioni di auto ad alimentazione alternativa aumentano sempre più e che a giugno 2023, per la prima volta, la quota d’immatricolazioni delle auto elettriche ha superato quella delle auto diesel. Ora è evidente che i produttori si stanno progressivamente adeguando all’elettrico ricaricabile e, se lo fanno, è perché cresce la domanda di elettrico nei consumatori, come conferma Anfia».

Di recente, una scuola calabrese è stata premiata, in Senato, per uno studio sullo stato delle Rinnovabili. La burocrazia è ancora un problema per la realizzazione di nuovi impianti del genere?

«Secondo i dati di Terna, nel 2021 erano ben 1.439 le domande non ancora approvate per l’allacciamento alla rete elettrica di impianti basati sulle rinnovabili: 974 per il fotovoltaico e 465 per eolico. Ad oggi, la maggior parte dei progetti è ancora in fase di autorizzazione, a causa della complessità burocratica e delle resistenze locali. A fronte di 264 nuovi progetti eolici e fotovoltaici censiti nel 2021, ben 188, cioè oltre il 70 per cento, risultano ancora in corso di autorizzazione. Solo 11 GW di nuove rinnovabili sono stati sbloccati nel 2022, di cui 9,5 GW pronti ad entrare in esercizio nel 2023. Nel primo semestre 2023, le fonti rinnovabili hanno coperto solo il 35 per cento della domanda nazionale di energia, pari a 151 TWh. La potenza installata da fonti rinnovabili è aumentata però di soli 6 GW rispetto al 2020, grazie soprattutto al fotovoltaico e all’eolico. Questo ritardo nell’installazione di nuovi impianti a fonte rinnovabile rende difficile per l’Italia raggiungere gli obiettivi di 125-150 gigawatt al 2030 stabiliti dall’Unione Europea». (redazione@corrierecal.it)

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