REGGIO CALABRIA È dal mare che avviene la maggior parte del traffico di droga, cocaina in particolare, verso l’Europa. A bordo di grandi imbarcazioni, minuziosamente nascosta all’interno dei container, con stratagemmi spesso anche difficili da immaginare. Ma come esce dal porto, riuscendo ad arrivare a destinazione, una volta scaricata? Tra quelle più diffuse c’è una modalità che presuppone la disponibilità da parte di un gruppo di persone all’interno del porto – addetti compiacenti – le quali, in virtù del proprio ruolo, delle proprie competenze e delle proprie abilità, sono in grado di recuperare dai contenitori la droga che, solitamente, è occultata o insieme alla merce o in appositi borsoni posti a ridosso della porta. Si tratta della tecnica del rip-on/ rip-off, in cui «un’imbarcazione commerciale legale è sfruttata per il trasporto di stupefacente (solitamente cocaina) dal paese di origine o dal porto di transhipment fino al porto di destinazione, senza che necessariamente l’armatore e la compagnia marittima ne siano a conoscenza». La pratica, – dettagliatamente descritta nel rapporto di Libera “Diario di Bordo. Storie, dati e meccanismi delle proiezioni criminali nei porti italiani” – come emerso da diverse indagini accomuna diversi porti italiani, da Nord a Sud, dando inizio anche a processi di professionalizzazione in ciascun porto: si sono ciclicamente create delle vere e proprie squadre di recupero nei principali porti di destinazione della cocaina, quali Genova, Gioia Tauro, Livorno, Vado Ligure. Reti di illegalità, più o meno formalizzate, rinsaldate dalla comune partecipazione a reiterati scambi corruttivi.
Sono quattro i passaggi che subisce il container dall’arrivo della nave in porto fino alla fuoriuscita dall’area portuale.
Nella prima fase la nave attracca e staziona a ridosso della banchina, in attesa che la gru prenda il contenitore. Nella fase successiva il gruista scarica il contenitore dalla nave e lo posiziona in banchina, a ridosso dell’imbarcazione, dove il resto della squadra è in attesa. Una volta che il contenitore si trova in banchina, può proseguire la movimentazione verso tre strade: l’esterno, l’area controlli, l’area deposito. Ciò avviene sulla base della destinazione finale del contenitore, del programma operativo definito dal terminalista e dalle valutazioni delle agenzie di controllo. Dall’area controlli o deposito, l’ultima fase prevede la fuoriuscita del contenitore dal porto o l’imbarco su un’altra nave.
Da qui l’elemento temporale all’interno del porto diventa fondamentale: «i gruppi criminali – si legge nel rapporto – hanno tutto l’interesse, in tutti i tipi di traffici, a fare in modo che la merce non sosti a lungo nello scalo. Infatti, più è prolungata la permanenza, più sarà elevato il rischio di eventuali controlli in una zona particolarmente presidiata dalle autorità pubbliche. Questo assunto è particolarmente significativo nella tecnica del rip-on/rip-off, poiché l’inserimento dello stupefacente all’interno del contenitore avviene, spesso, all’insaputa del destinatario della merce lecita; pertanto, il recupero della droga da parte dell’organizzazione deve essere estremamente rapido, nell’intervallo di tempo che sta tra lo scarico del contenitore e la fuoriuscita del porto». Alla luce dello schema proposto, è possibile individuare i tre momenti di possibile intervento della squadra di recupero: A) Nell’intersezione tra la fase 2 e le fasi 3a, 3b, 3c; B) Durante la fase 3c; C) Tra la fase 3c e le fasi 4c1 e 4c2.
Affinché il “colpo” vada a buon fine è centrale il ruolo degli addetti compiacenti che ricoprono un ruolo funzionale al recupero della merce illegale. Sono diversi gli attori che possono a vario titolo facilitare – o non ostacolare – l’attività: «chi si occupa della definizione delle squadre di lavoro; chi del planning delle movimentazioni (dispatcher); chi del rispetto del planning in banchina (checker); il gruista; il carrellista, rallista o autista di Straddle Carrier; il rizzatore; l’operatore di piazzale (foreman); l’addetto ai controlli. Proprio soffermandosi su queste figure è possibile riscontrare che nel favorire il traffico di stupefacenti alcune possono svolgere atti d’ufficio, altre atti contrari ai doveri d’ufficio».
Chiunque partecipi al recupero – viene rilevato nel rapporto di Libera – ha bisogno di particolari informazioni legate alla nave (nome, data e orario di attracco, planning di scarico), al singolo contenitore (sigla alfanumerica di riferimento, percorso e destinazione, merce legale contenuta) e allo stupefacente occultato (quantitativo, modalità di occultamento). Oltre alle informazioni, chi si occupa materialmente del recupero deve avere a disposizione una serie di strumenti che consentano di operare rapidamente, mimetizzando le operazioni con l’attività portuale e non lasciando traccia. Una dotazione composta da strumenti di lavoro come cesoie e guanti per l’apertura del sigillo, un duplicato del sigillo per rimpiazzare quello rimosso, un abbigliamento di riconoscimento identico a quello utilizzato per il lavoro portuale e, nel caso di cospicui quantitativi, un veicolo autorizzato all’accesso che possa muoversi in area portuale senza essere sottoposto a controllo. Inoltre, è da sottolineare come in particolare questo tipo di recupero presupponga l’utilizzo delle port facilities da parte dei componenti del gruppo, che sfruttano l’infrastruttura e la strumentazione dell’economia legale per i propri fini.
La già raffinata tecnica del rip-on/ rip-off è stata, secondo la Dcsa (Direzione Centrale Servizi Antidroga) ha subito poi una ulteriore evoluzione. Proprio come emerge dall’inchiesta “Tre-Croci”, l’inchiesta condotta dal Nucleo Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, ha portato all’arresto di 36 persone, accusate a vario titolo di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. Al centro dell’operazione il porto di Gioia Tauro, che riveste – come sottolineato anche nel rapporto di Libera – un «ruolo baricentrico» in quanto «porta di ingresso in Europa dello stupefacente importato». Nello scalo calabrese, secondo i dati della Dcsa «si concentra l’80,35% dei sequestri di cocaina effettuati alla frontiera marittima, con un’incidenza del 61,73% sul totale nazionale». Nel 2022, sono stati sequestrati a Gioia Tauro 16.110,38 kg e nell’ultimo biennio sono oltre 30 tonnellate.
L’evoluzione della già consolidata tecnica per far uscire la droga dal porto consiste nell’uso di un cavallo di Troia. È necessario il coinvolgimento di almeno 5 persone e la movimentazione di 4 container: «Un primo container, ove è stato occultato l’illecito carico di droga, è indicato dall’organizzazione criminale “mittente” della cocaina, in transhipment presso il porto prestabilito. Un secondo container, denominato “uscita”, individuato dall’organizzazione criminale importatrice, già sottoposto con esito regolare ai controlli doganali, si trova già “a disposizione” nel piazzale del porto. Un terzo container, casualmente scelto tra quelli presenti sul piazzale, è vuoto ed ha la funzione di “cavallo di Troia”; è destinato, in sostanza, al mero trasporto dei componenti della “squadra” incaricati del trasbordo delle partite di cocaina. Il quarto container, denominato “ponte”, è casualmente scelto tra quelli presenti sulla banchina e viene utilizzato per sottrarre alla vista le operazioni di trasbordo».
«Una volta individuato un “corridoio” libero tra due file di container, in una zona non controllata del porto, il container “mittente” e “uscita” vengono posti uno di fronte all’altro con i portelloni aperti, sopra di essi un altro a fare da ponte, e di fronte, a chiudere il corridoio, il “cavallo di Troia” all’interno del quale si nascondono i portuali corrotti. Questi ultimi possono così procedere al trasbordo dello stupefacente in tranquillità, riponendo poi il container “mittente”, ormai svuotato della merce illecita, al proprio posto, e il container “uscita” nella zona di ritiro, pronto a essere prelevato da una ditta di trasporto compiacente, che provvede a portarlo a destinazione». (m.ripolo@corrierecal.it)
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