TORINO Un’inchiesta che costituisce uno dei filoni investigativi derivati da un più ampio e complesso lavoro svolto dalla Distrettuale antimafia di Torino. Si tratta dell’operazione “Timone” eseguita nei giorni scorsi dalla Guardia di Finanza di Torino e che ha portato a cinque misure cautelari (3 in carcere e 2 con obbligo di dimora) per estorsione e intestazione fittizia di beni aggravate dal metodo mafioso, truffa ai danni dello Stato e bancarotta fraudolenta, i cui esiti hanno condotto a riaffermare l’esistenza nell’area piemontese, e segnatamente nel comune di Carmagnola, del dominio mafioso delle cosche di ndrangheta.
L’informativa finale del Gico, depositata l’11 luglio 2022, di fatto ha permesso di delineare «lo sviluppo delle indagini svolte nei confronti della cosca Bonavota» scrive il gip nell’ordinanza «storica cosca operante a Sant’Onofrio nella provincia di Vibo Valentia», della quale ne sono state ricostruite le propaggini extraterritoriali e i rapporti con le altre strutture di ‘ndrangheta operative nella zona di Carmagnola e nei territori limitrofi, riconducibili alle famiglie mafiose Arone-Serratore-Defina. Le indagini vengono articolare in due fasi, la prima denominata “Carminus”, la seconda “Fenice”. Nella prima fase, le indagini hanno messo in luce specialmente le figure di Salvatore e Francesco Arone, considerati i capi dell’articolazione ‘ndranghetista. Il primo condannato in Appello a 17 anni di reclusione, il secondo a 16 e 2 mesi, con sentenza emessa il 20 luglio 2023.
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L’annotazione riassuntiva del GICO riporta quanto emerso dalle indagini con riguardo alla “ingerenza” dei due Arone insieme ad Angiolino Petullà in una controversia tra privati che «vedeva coinvolti i fratelli Albanese, per definire a vantaggio di questi ultimi una vicenda legata alla compravendita di una carrozzeria ubicata nella zona nord di Torino». A prescindere dagli sviluppi, ciò che gli inquirenti evidenziano è «la stretta vicinanza tra Domenico Albanese ed esponenti della famiglia Arone, tanto da averli chiamati in causa in una vicenda privata». Nella stessa prospettiva si accertava che i fratelli Albanese avevano ripetuti incontri con Onofrio Garcea, già condannato in via definitiva nell’operazione “Maglio 3” e nell’operazione “Fenice”. E poi con Antonio Serratore e il fratello Raffaele e Francesco Viterbo. Il primo, in stato di libertà, è stato condannato nel processo “Carminius” celebrato con rito abbreviato con sentenza emessa dal gup di Torino il 12 dicembre 2020, confermata dalla Corte d’Appello di Torino il 5 luglio 2023, ed essendo libero, in quanto non sottoposto a misura cautelare, nel frattempo si incontrerà con gli indagati nell’operazione “Timone”. Raffaele Serratore, invece, è stato condannato a 5 anni e 10 mesi nel processo “Fenice”, così come Francesco Viterbo che ha rimediato, invece, 5 anni e 8 mesi. «Serratore Raffaele e Viterbo Francesco non solo si incontreranno con i fratelli Albanese, ma progetteranno con loro attività criminose comuni, specialmente nel campo degli stupefacenti» scrive il gip nell’ordinanza.
«… già ieri ho visto Antonio… m’ha detto aveva ragione mio fratello… non venivano per voi, venivano per Onofrio…». Nel corso di un incontro avvenuto il 25 ottobre 2019 a Venaria Reale, al quale hanno preso parte Viterbo Francesco e i fratelli Vincenzo e Domenico Albanese, è emerso come il primo «informasse i secondi di alcune dinamiche interne al sodalizio criminale» composto dalle figure criminali di Onofrio Garcea, dall’allora latitante Pasquale Bonavota, dai fratelli Salvatore e Francesco Arone e dai fratelli Antonio e Raffaele Serratore. In particolare, nel parlare di Onofrio Garcea, Viterbo riferisce di aver incontrato il giorno precedente Antonio Serratore «il quale sospettava che la polizia giudiziaria attenzionasse Garcea Onofrio ogni qualvolta, lasciando la Liguria, si recava nel capoluogo piemontese».
L’obiettivo era individuare e catturare Pasquale Bonavota, erede del clan omonimo di Sant’Onofrio, latitate dal 2018 e catturato, poi, solo il 27 aprile di quest’anno. Bonavota, 49 anni, era inserito nell’elenco dei latitanti di massima pericolosità facenti parte del “programma speciale di ricerca” del Ministero dell’Interno e per questo le ricerche da parte delle forze dell’ordine erano serrate, soprattutto nelle zone di influenza dei Bonavota, il fortino di Sant’Onofrio, Roma, la Liguria e il Piemonte. Pasquale Bonavota, poi, verrà condannato a 28 anni di reclusione dopo il processo di primo grado “Rinascita-Scott” celebrato nell’aula bunker di Lamezia Terme.
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«… stanno seguendo a Onofrio… è convinto che poi lui ci porta da Pasquale Bonavota…». Viterbo, inoltre, racconta ai fratelli Albanese quanto da lui appreso da Antonio Serratore: quest’ultimo lo avrebbe avvertito che la Polizia Giudiziaria era particolarmente attenta agli spostamenti di Garcea poiché seguendo quest’ultimo «speravano di giungere al luogo della latitanza di Pasquale Bonavota». E Viterbo, parlando, fornisce anche altri importanti spunti investigativi. Secondo lui, all’epoca dei fatti, «Pasquale Bonavota si trovava a Torino o al massimo a Genova, godendo verosimilmente della protezione degli altri affiliati al clan ndranghetista che ne favoriscono la latitanza. «…dice è qua, no? Pensano che Pasquale è qua a Torino o a Genova… allora dice prima o poi ci porta…». Per gli inquirenti, dunque, quasi ammettendo implicitamente che Pasquale Bonavota stesse realmente trascorrendo la sua latitanza a Torino o a Genova e che Onofrio Garcea ne favorisse la latitanza, lo stesso Francesco Viterbo chiarisce che si sarebbe guardato bene da far l’autista a Garcea proprio per evitare di trovarsi in situazioni rilevanti dal punto di vista penale: «… aspetta, aspetta che mi faccio attaccare… ma manco se scendono…». (g.curcio@corrierecal.it)
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