La questione del lavoro ha una sua fondamentale importanza nel contesto meridionale, dove registriamo un aumento del Pil dello 0,6%. Già questo è un dato sorprendente che dimostra come il Pnrr stia lasciando un’impronta e potrà farlo ulteriormente nel prossimo triennio. Ci sono questioni aperte e opportunità importanti all’orizzonte. Innanzitutto, la Zes, che consentirà una defiscalizzazione degli investimenti nel Sud e che dovrebbe portare, in tutto il Meridione, almeno settantamila posti di lavoro. Con la Fondazione Brf, che si occupa di neuroscienze, abbiamo impostato un lavoro di monitoraggio delle vocazioni individuali, che potrebbe essere una grande occasione per recuperare il forte dato dei Neet (oltre cinque milioni di giovani che non lavorano e che non studiano) e per contribuire agli aspetti fondamentali legati alla formazione. C’è un intervento positivo del Governo sugli istituti professionali (che negli anni settanta erano una risorsa straordinaria) e si può lavorare in sinergia con le agenzie formative individuando precocemente capacità e abilità individuali in un contesto che non sia solo quello tradizionale del pensiero di Smith su domanda e offerta. Il Mezzogiorno non ha vissuto mai un processo di industrializzazione per motivi che sarebbe inutile ripetere. Ma ha le potenzialità per un’industria di qualità e un binomio (agro-turistico) che è da sempre potenzialmente straordinario per capacità attrattive e per opportunità di intrapresa. Quello che deve realizzarsi nel Sud, e in Calabria in particolare, ha bisogno di un processo culturale e politico preminente. Il concetto di istruzione di base, che ha garantito ai ceti più poveri l’accesso a una formazione culturale, va modificato proprio in virtù delle vocazioni singole. Non è obbligatorio che tutti si laureino ma è indispensabile garantire a chi è vocato e magari non ne ha le possibilità) il migliore percorso scientifico possibile. Di contro, sopprimere capacità innate dedicate a un artigianato avanzato o all’agricoltura di qualità, così come non garantire la possibilità di apprendimento per mestieri ricercati, è un grave errore. In primis perché, secondo la logica umanistica, assecondare i talenti, qualsiasi essi siano, è la forma migliore di convivenza sociale. In secundis, perché la crescita economica e l’autonomia derivano da filiere produttive che siano legate alla conoscenza. Essere un grande ebanista o un grande falegname non è minore rispetto a essere un ingegnere o medico e l’idea di comunità si basa su una diffusione di saperi diversificata. La Calabria, ad esempio, ha il porto più importante del Mediterraneo, Gioia Tauro, e intorno ad esso può costruire un apparato di costellazioni economiche in grado di incentivare l’indipendenza economica. La funzione di Stato e Regioni deve essere quella di assunzione di responsabilità nella fase formativa, con una sinergia che coinvolga tutti gli attori sociali. Utilizzare al meglio le opportunità di questi anni significherebbe proiettare nelle future generazioni una dimensione di piccole e medie imprese e di manodopera specializzata che non solo aumenterebbe l’occupazione ma creerebbe a catena una libertà sociale propedeutica alla realizzazione compiuta della democrazia. La presenza dello Stato deve essere finalizzata, a latere di ciò che compete alla Scuola, a favorire l’emersione di professionalità e capacità che le convenzioni sociali spesso hanno ignorato. Churchill sosteneva che spesso, “le pecore nere rifiutate dal sistema erano in realtà più bianche delle altre ma si faticava a riconoscerne il candore”. Cambiare passo significa rendere una visione politica nella gestione delle dinamiche del lavoro, dimenticando gli artifizi di una burocrazia spesso spenta e demotivata. Ci vuole coraggio. Ma la prospettiva è buona.
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