CATANZARO Poco meno di mille pagine per motivare la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Catanzaro (Presidente Beatrice Fogari; a latere Giovanni Strangis e Marilena Sculco), al termine della udienza del 14 luglio 2023, nei confronti di 35 imputati nel processo scaturito dall’inchiesta “Basso Profilo“. Un procedimento – incardinato dalla Dda di Catanzaro – incentrato sugli intrecci illeciti tra le cosche crotonesi e il mondo dell’imprenditoria. Dominante in questa indagine è la figura dell’imprenditore Antonio Gallo che il pubblico ministero Paolo Sirleo, i sede di requisitoria, non ha esitato a definire «soggetto servente alle cosche», un uomo che ha costruito un sistema di società cartiere, ossia esistenti solo sulla carta, il cui unico scopo era quello di «produrre fatture». Per lui è arrivata una condanna a 30 anni. accusato, tra le altre cose, di associazione mafiosa, «poiché nella sua qualità di imprenditore, fungeva da riferimento operativo delle organizzazioni ‘ndranghetistiche insistenti nell’area geografica di Sellia Marina, Catanzaro, Botricello, Mesoraca, Roccabemarda, Cutro e Ciro marina».
I giudici riassumono gli elementi procedurali salienti del dibattimento celebrato, partendo proprio dalla figura di Gallo «un imprenditore operante nel settore dell’antinfortunistica». Gallo sarebbe stato capace di muoversi a proprio agio tra i clan del Crotonese, settori della politica e l’imprenditoria. C’è un episodio che i giudici richiamano nelle motivazioni e che vede protagonista l’imprenditore «ad una cena a Cotronei» insieme al «reggente di una ‘ndrina». Secondo l’accusa fungeva da «riferimento operativo delle organizzazioni ‘ndranghetistiche insistenti nell’area geografica di Sellia Marina, Catanzaro, Botricello, Mesoraca, Roccabernarda, Cutro e Cirò marina» e «forte del legame tra gli altri con Nicolino Grande Aracri di Curo, Mario Donato Ferrazzo del locale di Mesoraca, Domenico Megna del locale di Papanice, dei maggiorenti delle cosche cirotane». Grazie alla sua intraprendenza imprenditoriale e «veicolando parte dei proventi alle cosche, gestiva in regime di sostanziale monopolio la fornitura di prodotti antinfortunistici alle imprese che eseguivano appalti privati nei territori del settore jonico catanzarese, si procacciava appalti con enti pubblici anche attraverso il potere intimidatorio derivante dal vincolo associativo, curava la gestione di società fittizie – nelle quali figuravano prestanomi a lui legati – create al precipuo scopo di incamerare illeciti profitti – da destinare in parte alle cosche cui era legato – mediante condotte decettive ai danni dell‘Erario e degli enti previdenziali».
C’è un altro imputato condannato a 30 anni, accusato di associazione per delinquere semplice aggravata dal metodo mafioso «in veste di promotore» che «rappresentante legale di diverse società, creava società fittizie, acquisiva beni di lusso, a mezzo prestanome, attraverso finanziamenti che non venivano onorati». Si tratta di Umberto Gigliotta «legato alle cosche Trapasso di San Leonardo di Cutro». E’ un imprenditore nel settore delle compravendite e locazioni immobiliari, che si sarebbe messo a disposizione delle cosche, «per porre in essere una serie di attività economiche illecite, nell’interesse della compagine». Gigliotta avrebbe coadiuvato la famiglia Trapasso di San Leonardo di Cutro nel settore dell’usura, «acquisendo titoli di credito emessi dai debitori dei Trapasso, a garanzia di prestiti usurari, cambiandone, il valore in guisa da non consentire di ricondurre alla suddetta famiglia la responsabilità». Inoltre, sempre secondo quanto si legge nelle motivazioni, avrebbe investito denaro frutto di attività illecite provenienti dai Trapasso in attività immobiliari». (f.b.)
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