«Il Paese dei balocchi», ha scritto su Facebook un amico di Spinoza.it, con riferimento all’inchiesta in corso sulla campagna “Pandoro Pink Christmas”. Un dolce può diventare amaro, al di là – oppure a causa – delle narrazioni del web. Con una metafora ad ampio raggio, potremmo allora riassumere che gli ingredienti gabbano il palato, se i gusti dominanti dipendono dalle emozioni, dai desideri contagiosi che si diffondono grazie – anche – ai Big data.
Si tratta, nello specifico, dell’inversione della tesi, di san Tommaso d’Aquino, secondo cui «niente è nell’intelletto, che prima non sia stato nei sensi». La sperimentazione diretta, cioè l’esperienza delle cose, lascia insomma il posto all’immaginazione, e la realtà viene soppiantata da frequenti aspirazioni indotte. È la logica del consumismo, da cui venne fuori l’aperitivo, divenuto «apericena», e per via della quale l’ultimo smartphone da mille e passa euro resta tra i beni più ricercati e assieme sottoutilizzati.
Gianroberto Casaleggio, che conosceva bene la nuova psicologia dei consumatori, trasferì in politica il potere del marketing e creò il mito “anti-casta” dell’«ognuno vale uno».
A compendio, il caso Balocco-Ferragni, mantenuta la doverosa presunzione d’innocenza, ripropone un tratto distintivo della contemporaneità: oggi si compra soprattutto sulla base della reputazione virtuale, dell’immagine che riceviamo di qualcuno, del valore simbolico di un pandoro, di un oggetto di consumo. Non serve, dunque, analizzare e valutare in proprio la qualità di un bene, di un’attività, infine di una storia all’interno di un contesto; argomento, quest’ultimo, tanto caro all’“ecologista della mente” Gregory Bateson. Di contro, a Bisignano le chitarre battenti sono ancora costruite con una cura meticolosa di materiali e dettagli, secondo un metodo tramandato per sei generazioni, sempre nel medesimo luogo e con il fascino dell’antico: l’odore e la stagionatura del legno, l’atmosfera della bottega. Quegli strumenti musicali non emettono solo suoni, ma raccontano un piccolo ma grande mondo di lavoro, passione, sapienza e mestiere che ne costituisce la tipicità, sconosciuta alle masse.
Viviamo – riprendendo con espresso abuso il titolo di un libro di René Guénon – nel «Regno della Quantità», in cui like, commenti, “audience” e condivisioni fanno la differenza: sanciscono il successo oppure il fallimento di un’impresa, individuale o collettiva. Ma, avvertiva nell’album “Campi magnetici” il filosofo Manlio Sgalambro, «i numeri non si possono amare».
La sfida del mercato si è da tempo spostata sul terreno della comunicazione, che ha il compito di convincere all’acquisto di un prodotto a prescindere dalla fattura, dalle caratteristiche, dalla durevolezza o dall’utilità effettiva che esso ha in sé. Ne soffrono gli artigiani in generale, i musicisti, gli scrittori, i giornalisti e così via, che non riescono a occupare spazi di mercato con le loro opere d’ingegno, salvo che non imparino a impressionare i potenziali clienti entrando nei loro schermi domestici con pensieri disordinati, slogan, esagerazioni, urla o gesta scomposte alla Blanco durante lo scorso Sanremo.
Un brano musicale – come ha significato di recente il cantante Povia – ha séguito se crea consenso, se il video ufficiale gira molto in virtù di strategie precise, tecniche sottili e suadenti di propaganda; manipolative, con rinvio alla lezione pubblicitaria di Edward Louis Bernays, celebre parente dello psicanalista Sigmund Freud. Parimenti, un libro si vende se dietro c’è una campagna ad hoc, che ne trascende stile e contenuto per indirizzare, come avvenuto a proposito di alcuni testi cosiddetti «antimafia», l’attenzione sulla vicenda personale dell’autore, con l’effetto di sovrapporne l’immagine pubblica, spesso accompagnata da un’aura di eroismo, alla sostanza del suo lavoro intellettuale. Ne è stravolta la morale veicolata dal “Ravelstein” di Saul Bellow, romanzo pubblicato nel 2000: puoi essere un mostro della cultura e del pensiero, un Ravelstein o un Eco, un Vattimo, un Chomsky, un Žižek, ma, senza trucchi e appoggi comunicativi, non riesci a influenzare le coscienze.
Il mondo è cambiato con le spinte della globalizzazione capitalistica. Ora anche l’etica è agganciata alla pubblicità e rientra nell’istituto della compravendita. Per esempio, sulla busta – rigorosamente di carta – del panino appena acquistato, puoi leggere frasi tipo «ricordati di rispettare l’ambiente».
Paghi quindi un sovrapprezzo per un pacchetto unico: bene alimentare e principio di condotta. Tutto si vende e si compra rapidamente, nel mercato universale del presente: dai titoli di studio alle armi di difesa; dalle patacche nobiliari alle pillole made in China; dai profumi agli ormoni maschili sino ai filmati osé su richiesta; dal consulto con lo specialista alla solidarietà di Natale, come conferma l’errore di comunicazione – se di questo si è trattato – ammesso da Chiara Ferragni nel video in cui appare struccata, contrita e pronta a rimediare sborsando capitali per scopi benefici e ricomporre la frattura con il pubblico e i clienti.
È la società dello spettacolo, basata sulla curiosità voyeuristica, sulla commedia permanente, sullo stupore pilotato, sull’illusione della fama, sul commercio senza limiti, addirittura di organi, emozioni e sentimenti umani. In questa dimensione surreale e disumanizzante, prima che virtuale, noi giornalisti abbiamo una missione che va molto al di là della cronaca, cioè contribuire a ossigenare e rianimare il giudizio critico, anche con il commento intransigente dei fatti. (redazione@corrierecal.it)
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